1975. Incredibilmente vivi! Non sappiamo come ce l’abbiamo fatta
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Benvenuti nella sezione speciale “GdV 5o Anni”. Vi stiamo presentando, giorno dopo giorno, un articolo tratto dall’archivio del Giornale della Vela, a partire dal 1975. Un consiglio, prendete l’abitudine di iniziare la giornata con le più emozionanti storie della vela: sarà come essere in barca anche se siete a terra.
Come la va Gerard? Jerome, come la va?
Tratto dal Giornale della Vela del 1975, Anno 1, n. 05, novembre, pag. 4-7.
Il mitico Damien nei mari australi scuffia tre volte in due ore. Il racconto di Jerome Poncet e Gerard Janichon che, grazie alle loro avventure, sono diventati eroi della vela francese.
Si sta bene seduti sotto la cupola di plexiglas con la schiena appoggiata a un cuscino, governando il Damien con la ruota del timone posta all’interno. La rustica stufa tira piacevolmente e distribuisce un dolce tepore, tale da conferire a questa navigazione sul filo del 56° di latitudine sud, molto al di sotto, cioè, del limite medio dei ghiacci e degli iceberg, un’atmosfera serena da tranquilli borghesi in crociera. I pensieri del turno di guardia notturno galoppano sul ritmo delle sigarette e dell’acqua che scorre lungo la chiglia. I ricordi si affollano e si accavallano. Ushuaia, la città più meridionale del mondo di cui nulla si può dire se non che deve essere bella d’inverno sotto la neve…
I cinque giorni di detenzione dovuti alla Marina cilena a Port William, cinque giorni che ci hanno convinto a rinunciare alla navigazione verso le Shetland del sud con l’inverno oramai troppo vicino. Al ritorno, si vedrà…
E questi ultimi otto giorni, otto giorni di rapida veleggiata fra la Terra del Fuoco e qui dove ci troviamo, non lontani dalla Georgia del Sud: 1100 miglia di arie non troppo aggressive e favorevoli in compagnia dei delfini macchiettati di nero e bianco, con gli albatri, con la preoccupazione di ghiacci vaganti che non c’erano…
No, quest’anno non ne incontreremo, di ghiaccio, d’altronde non si sa né si può prevedere. Dicono, che il ghiaccio odora. Forse che i vecchi marinai d’un tempo, con la loro esperienza dei mari polari, riuscivano a localizzarlo, a fiutarlo molto prima che si mostrasse davanti alla loro prora?
Noi siamo dei neofiti del mestiere. Preghiamo perché non ci sia ghiaccio davanti a noi, con questa neve…. Di tanto in tanto una burrasca di neve staffila queste prime ore ancora sicure del 26 marzo. Il vento rinforza da 6-7 a 8. È il momento in cui si sente davvero la propria barca galoppare come se scappasse con un osso fra i denti. Vento in filo, randa terzarolata ma con il genoa pesante a riva, “surfa” sull’onda senza contraccolpi e senza accostate. Ci vuole la massima concentrazione, benchè la barca rimanga perfettamente manovrabile. Il “pang-pang” di una pentola mal rizzata mi disturba, ma nulla al mondo mi indurrebbe a muovermi. Mi sento vibrare: e vivere. Poi la buriana passa e torna la ronda dei pensieri vaganti di una guardia tranquilla…
Quel Capo Horn, incredibile!… Vedrò mai qualcosa di più bello? Quale conquista ci darà mai altrettanta soddisfazione? Domani cucinerò un dolce di semola per festeggiare l’arrivo nella Georgia del Sud… Ma chi conosce la Georgia del Sud? Chi ha la minima idea della sua posizione sulla carta nautica?…
Devo finire di leggere il Corriere del Sud, Saint-Exupery scrive proprio… strano, appartiene alla razza dei profeti… ma no, si tratta solo di un’estrema lucidità di pensiero, una lucidità che deriva da saggezza e da meditazioni sul mondo che ci circonda…
Verso la fine del turno il tempo peggiora, dev’essere l’inizio di un colpo di vento. “Riduciamo la tela”, decide Jérôme. Avrei voluto aspettare il giorno e guadagnare delle altre miglia per ridossarci a riparo della Georgia: ma non dobbiamo dimenticare che siamo al di sotto dei Cinquanta Urlanti. Proseguiamo sotto trinchetta (12 mq) sempre in fuga. Vado a dormire. È il turno di Jérôme di godersi la sua barca. Ma il mio riposo è disturbato dal vento che fischia a mano a mano più forte, dai frangenti a mano a mano più furiosi.

Quando ricomincia il mio turno, Jérôme mi ammonisce: “Devi abituarti. Ci sono in giro veri e propri mastodonti. Ho visto cavi d’onda che dovevano sfiorare i 15 metri. Generalmente variano fra i 10 e i 12 metri. Cerca di non partire in “surf” poco fa la barca è partita e non la tenevo più. “Ammainiamo?”, chiedo io. “Staremmo più comodi sotto un fiocco piccolo o sotto quello da tempesta – risponde Jérôme – ma se la costa o gli scogli compaiono all’improvviso serve poter manovrare senza ritardo. Meglio continuare così”.
Lo spettacolo di questo colpo di vento da ovest, forza 9 o 10, è piuttosto pauroso ma affascinante. È la prima volta che vediamo uno scatenio del genere e le nostre precedenti esperienze di cattivo tempo impallidiscono. Eppure abbiamo subito sventolate notevoli nell’emisfero settentrionale. Ma questa volta il gioco è diverso, sono le latitudini meridionali a tenere banco. Il Damien corre sui cavalloni australi, con il loro ciclo di vasti avvallamenti e di formidabili frangenti. Il vento è relativamente moderato e lo stimiamo sui 60-70 nodi. Ma il mare è molto peggiore del vento, sembra essersi alzato di livello e il suo respiro è ansante. È screziato di bianco e gli spruzzi corrono impazziti, strappati via dalla cresta delle onde, confondendosi, durante i groppi, con i fiocchi di neve. Ogni tanto qualche onda piuttosto grossa si muove obliquamente ai cavalloni e quasi sempre frange. Gli albatri che ritrovavamo a ogni alba sono scomparsi, ma altri uccelli più piccoli indietreggiano davanti alla tempesta tenendo il becco al vento.
Cielo e orizzonte sono tappati, ma di tanto in tanto il sole compare furtivamente dietro la vela.
– “Ehi, i ‘cavi che abbiamo visto dopo la scuffia a sud della Groenlandia erano nanetti rispetto a certi mostri di queste parti!”.
– “Puoi dirlo. Dobbiamo aver raggiunto i bassifondi e trovarci sulla piattaforma subacquea che circonda la Georgia, ecco la ragione. Non dovremmo essere lontani dal trovarci ridossati rispetto all’isola. Se vedi il sole, chiamami: così prendo una retta. Ci darà sempre un’idea della posizione”.
Venti minuti più tardi ci va meno bene. Un urto spaventevole scuote il Damien come se qualcuno l’avesse lasciato cadere da grande altezza su un immenso tamburo. Sembra come se fosse scoppiato e risuona di mille rumori contemporaneamente: un attimo di oscurità poi subito l’acqua, sopra il livello del pagliolato. Balziamo fuori e ammainiamo la trinchettina. La fragile pala del pilota automatico è stata spazzata via, non è un’avaria grave: è soltanto un pezzo di compensato molto delicato, mentre tutto il resto del dispositivo non ha subito danni. Invece la crocetta inferiore sinistra si è tranciata a raso della sua ferramenta, cosa molto pericolosa dati gli sforzi a cui l’albero e soggetto. Mentre mantengo meglio che posso la barca con la poppa all’onda, Jérôme sale sull’albero e, servendosi della scotta di trinchetta, fissa alla meglio la crocetta. Un portello di gavone poppiero si è socchiuso, nonostante la sua impermeabilità fosse stata rinforzata: di li, probabilmente, è entrata l’acqua. Ritorniamo dabbasso dopo averlo sistemato.
– “Cristo, c’è più acqua di prima, non credi”.
– “Direi di sì”.
Più tardi scopriremo l’origine di tutta quell’acqua: un raccordo fra i serbatoi d’acqua dolce si era rotto e quasi 200 litri si erano aggiunti all’acqua penetrata attraverso il gavone. Ma intanto impallidisco, ho l’impressione inquietante che ci sia una brutta falla. Sgottiamo secchiate il liquido gelato e ne veniamo a capo. ii disordine sottocoperta potrebbe essere peggiore: le cuccette, il pagliolato, gli armadietti, il tavolo di carteggio e tutto ciò che è solito spostarsi durante una scuffia è ben rizzato. Sono sparsi in giro soltanto alcuni oggetti d’uso comune e legna e carbone.
Mentre accende una fiammata ristoratrice, Jérôme ansima:
– “Porca miseria, una crocetta bassa non dovrebbe spaccarsi, su questa barca in particolare. È incredibile, accidenti! Roba da far saltare l’albero! Meno male che è robusto!”.
Il Damien sembra comportarsi nel modo migliore in cappa secca senza pastoie e nella sua posizione naturale con il vento e il mare al traverso. Riprendiamo fiducia. Quando arriva un frangente si corica su un fianco con l’albero orizzontale e, appoggiato sull’opera morta, svincola a una velocità difficili da stimare… 10-12 nodi?… e poi si rialza. Rientra quindi nel vento e ritrova la sua posizione traversata. Per una barca più pesante e di maggior pescaggio sarebbe, nelle circostanze attuali, una posizione pericolosissima. Resisterebbe brutalmente all’impatto, non scivolerebbe così facilmente e riprenderebbe l’assetto in modo molto più violento. Un guscio di noce, per quanto sballottato dal cattivo tempo, ha più doti di sicurezza e maggiori possibilità di cavarsela di qualsiasi nave. Per altro, quando ci si trova a bordo del guscio di noce suddetto, non ci si rende sempre conto della situazione:-
Cosa e successo. Abbiamo scuffiato?
– Non proprio. Abbiamo certamente fatto il giro, ma ci siamo più probabilmente ingavonati, anche se non è esattamente così. L’onda era incredibilmente alta e ripida. Ci trovavamo nella sua parte frangente, più lunga della barca, c’era ancora dell’acqua al di sopra con un abisso sottostante. Quando ci ha “imbarcato” ho creduto che non saremmo mai riusciti a venirne fuori. Sembrava impossibile. La barca è volata con il culo sopra la testa. Quindi non si è ingavonata ma è stata proiettata culo-su-testa in una vera e propria voragine.
– E’ incredibile!
– Se avessi visto l’onda, capiresti…
– Cristo… Vado a fare un caffè e ci regaliamo un cicchettone di whisky.
Quando mai finirà questo colpo di vento con i suoi periodici, abominevoli urli? Il Damien continua la sua cappa secca. Si aspetta sperando in un miglioramento. C’è così poca strada fino a Grytviken, a nord dell’isola, tanto vicina a sua volta. Il vento che fischia rabbiosamente fra le sartie mi fa male. Quando un’onda frangente prende la rincorsa sembra un omaccione rumoroso che corre a grandi falcate, pazzo di rabbia e intenzionato a infliggerci una sventola mortale e il più possibile sonora. Ci si ferma di respirare, ci si raggrinza tutti senza neanche tentare di difendersi, poiché non si sa bene in che punto colpirà. E la sventola arriva…
Questo colpo di vento da ovest non vuole mollare. Quando do un’occhiata al mare, attraverso un oblò o guardando fuori dalla cupola, chiudo gli occhi sforzandomi di credere che ho veduto male, che quelle masse di schiuma nascono dalla mia immaginazione o dallo sfinimento. Ho paura. Paura soprattutto di finire per odiare il mare, come accade dopo una profonda delusione amorosa. Se ciò fosse, allora non avrei più nulla da fare su una barca a vela. Come farei ad ascoltare in questo pandemonio espressioni del genere “Amami come sono, prendimi come sono e se non ne sei capace datti al ciclismo”? Ma come fa una barca a vela a passare in mari come questi? Come hanno fatto a passare Vito Dumas, Moitessier e altri? E gli Smeeton che hanno riprovato! In certi momenti il mare è di un verde cristallino, purissimo, su tutta una grande superficie, e tale visione straordinaria segue di solito il passaggio di un’onda frangente di dimensioni particolari. In altri momenti la superficie diventa tutta bianca, ribollente e si formano nuove onde secondarie. Quando ci troviamo in basso nell’avvallamento scorgiamo la parte alta di quello precedente e la sommità di quello seguente: e sembra impossibile non essere inghiottiti. È molto, crudelmente bello. Non mi è mai capitato, in circostanze analoghe, di provare questa impressione di angosciosa attesa e so che, se non ci fosse stata la scuffia, scivolerei in uno stato euforico come un ubriaco per il quale cambiano tutte le dimensioni, per il quale più nulla è difficile. Ma non sono ubriaco e la fiducia nella mia barca è giustificata. Non abbiamo mai visto uno spettacolo del genere. Ce ne saranno degli altri? Il mare è impazzito. il mare non esiste più. Il mare… Il mare, enorme, smisurato e poi, più nulla, solo il silenzio. Brutalmente.
E comincia lo strano viaggio. È tutto così dolce dopo queste ore di fracasso demenziale. So che non si dovrebbe, ma è tanto piacevole lasciarsi scivolare, perché la lotta e finita, perché tutto ciò che è stato il passato e il presente è consumato, perché non esiste più futuro. Questo istante non finisce, non finirà più… al di la del godimento, al di là della sofferenza. L’eternità. Non paura. Non rifiuto. Perdo la consapevolezza, il senso di quanto mi circonda e dell’azione immediata che sta all’apice della nostra vita, di Jérôme che si lascia probabilmente scivolare nello stesso tipo di torpore. A tratti mi risveglio bruscamente, quando l’acqua ha rosicchiato un altro po’ della nostra carne, agghiacciandola: ma è il soprassalto di uno sbronzo che apre gli occhi senza svegliarsi e che porta macchinalmente il bicchiere alla bocca. Per poi richiudere gli occhi e ripiombare nel nulla. O, forse, è la voce di Jérôme: Come la va, Gérard?
Poi “passiamo” di nuovo. Passare, un termine semplice e bello per indicare la fine, cancellazione dell’esistenza, scivolamento senza appigli, senza urti verso l’altro vuoto, verso la parte invisibile del muro. Passiamo ed è un momento di vita intenso. Questa soglia di morte è certamente una trascendenza.
– …?
– …?
Ma certo va, ho risposto – ho portato il bicchiere alle labbra – nello stesso modo come lui ha fatto la domanda. L’analisi è progressiva, come se si vivisezionasse il tempo. Gérard ha risposto a Jérôme. Jérôme è ancora vivo, la sua voce l’ha confermato: e la mia voce ha confermato la mia esistenza. Eppure non c’è più speranza di vita, anche lontana: il Damien è capovolto, il Damien è con la chiglia in aria, il Damien si sta riempiendo d’acqua e noi ci siamo dentro. È già lontano il momento della colossale sberla subita dalla fiancata di sinistra del Damien soltanto tre quarti d’ora dopo la prima scuffia. La natura furibonda aveva concentrato la sua collera contro la nostra piccola barca che ci era apparsa, in quel momento, troppo fragile per sperare di cavarsela da quella fine del mondo. Il fragore era stato assordante, spaventoso. Come aveva fatto lo scafo a sopportare un tale sconquasso senza scoppiare in mille pezzi?
E ora eccoci nell’acquario. L’improvviso silenzio del vento e del ruggito delle onde aumenta l’impressione di morte e, nello stesso tempo, di estasi, La barca sembra stabilizzata nella sua nuova posizione, non si tuffa di prora né di poppa e si muove appena. Rifiutiamo questo assurdo: 1600 kg di ghisa, il peso in sentina… una barca di 5 tonnellate… no, è impossibile. Beh, la rimetti in piedi o no? Ci hanno fregato la zavorra, giuro! L’acqua sale rapidamente, invade la cabina. Stiamo affondando.
Nessuno dei portelli Goiot della coperta, nessun oblò ha ceduto ma il livello dell’acqua è più alto, inesorabilmente, a ogni secondo che passa. Soprassalto. Sogno. Realtà. Tutto procede a scatti come in una vecchia pellicola. Il tempo è oramai privo di consistenza: ragionamenti procedono seguendo il circuito delle cellule a seconda dei messaggi sensoriali che ricevono e che vengono decifrati a velocità tale da travolgerci. Il tempo si è fermato. Il mio pensiero non esiste più, funziona quello di qualcun altro di cui ignoravo l’esistenza fino a questo istante: perché il mio pensiero si è fermato un minuto, un secondo fa… insomma, neanche il tempo necessario per la sua domanda e per la mia…. il mio pensiero è fuggito, lo ritrovo, lo riperdo e osservo me stesso mentre lo ritrovo e lo riperdo. È un altro Jérome, è un altro Gérard quelli che stanno morendo, noi siamo troppo aleggianti… al di qua oppure al di là. La barca continua a riempirsi, non si raddrizzerà più.
Il Damien va a picco. È una schifosa tempesta ed è una schifosa fine, un’apoteosi che esplode come gli ottoni in Berlioz o in Wagner. È troppo da coglioni crepare come topi… Ma no, i topi abbandonano la nave in tempo… In quel momento ero arrivato a credere che nessun marinaio avesse mai provato una tempesta simile, che nessun uomo fosse mai morto. Poi ho capito che la morte è l’istante più intenso della vita, l’istante più facile da afferrare. Peccato che allora tutto debba arrestarsi e che non si possa trarre alcun insegnamento da tale verità essenziale, quale si svela in un impeto di lucidità che si perde per sempre se si riesce a cavarsela nonostante tutto. Una capacità insospettata della coscienza.
– “Jérôme, come la va?”
– “Sai, credo che questa volta…”
– “La barchetta va per occhio!…”
Accettiamo il fatto, l’abbiamo già accettato. Senza panico, senza rimpianto. Per un marinaio è una bella fine. Finire con la propria barca. Abbiamo pronunciato il nostro addio, parole di amicizia. Le lunghe frasi sono inutili fra noi e non siamo qui per fare del cinema. I minuti trascorrono, quelli della nostra eternità si avvicinano. La lampada di navigazione a filtro rosso che non funzionava ormai da mesi si è accesa da sola e sembra un inutile segnale d’allarme oppure la prima tappa dell’altro mondo. A poco poco il torpore ci avvolge. Mi sento sempre meno capace di intendere, di sapere se ancora sono in grado di pensare: il cervello sembra surgelato, si allontana progressivamente dal mio essere. Mi addormento. Non possiamo agire o reagire perché non c’è nulla da fare con una barca a vela che ha la chiglia per aria, con l’acqua che penetra non si sa da dove, con la volontà che non esiste già più. Finché non si vede la morte in faccia si può credere alla propria immortalità: ma quando ci si trova sul campanile della propria vita, la campana suona a morto, indubbiamente.
Nella cabina del Damien c’è sempre di più un senso di estraneità. Un senso capovolto. Provatevi a immaginare il vostro mondo di tutti i giorni, rovesciato: e voi che camminate sul soffitto, al buio. Ogni cosa diventa difficile, ogni angolo, ogni oggetto diventa ostile. Ho penato maledettamente a localizzare la mia posizione in questo spazio angusto. Ora so: sono appoggiato contro la sponda della mia cuccetta, con i piedi appoggiati al soffitto. Jérôme è poco più lontano… Mi sembra lontano ma mi rendo conto della trappola tesami dall’illusione. Si trova appoggiato al puntale del posto di governo interno. Si è mosso. Poco fa era più vicino, appoggiato alla stufa.
Alla stufa. Alla stufa? Non risente ancora della profonda scottatura alla spalla. L’acqua continua a salire. È tutto nero in giro o piuttosto verdastro. Non parliamo più. Dovremmo cercare di misurare il tempo. Quant’è che il Damien si trova con la chiglia per aria, da quanto tempo dura questo tempo, quanto ce ne rimane da misurare? È complicato, dato che ai messaggi chiari di una coscienza normale si mescolano quelli confusi e incompleti – o completi a livello inconscio – delle sensazioni: l’acqua gelata, il freddo, la mancanza di luce, la paralisi che guadagna terre- no. E il sollievo di non sentire più lo scatenamento del colpo di vento.
Quando più tardi Jérôme e io rievocheremo questi momenti, quando ricostruiremo i nostri gesti, i nostri vani tentativi di provocare il raddrizzamento della barca, saremo meravigliati dall’assoluto parallelismo dell’avanzare dei nostri pensieri, dell’analisi, delle sensazioni, delle voglie, delle angosce. Il racconto dice “io”, ma è evidente che eravamo in due, in due a soffrire, in due sulla soglia degli Inferi, in due a passare. Il Damien non c’era più: non era che un guscio di legno capovolto da un’onda frangente più spaventosa delle precedenti (che avevano già scosso la sua sicurezza con i loro furiosi assalti). Ma, in verità, cosa si può fare quando una barca a vela si ritrova con la chiglia per aria, con l’albero nell’acqua, in posizione molto equilibrata, con l’acqua ghiacciata che penetra lentamente e quando, con la morte che vi invade progressivamente, non sentite in realtà nessun senso di ribellione oltre a quello relativo all’assurdità tecnico-matematica? Come può una barca a vela dotata di una zavorra di 1600 kg, alla quale si aggiungono. 300 kg di peso in sentina, rifiutarsi di recuperare immediatamente il suo equilibrio normale? Il fucile. Sì, il fucile! Non come arma bensì come sicurezza, come uno sbuffo di calore che renda più dolce lo strano sogno. Per trovarlo bisognerebbe orientarsi e lo sforzo è troppo grande. Certamente è stata proprio l’ultima grossa onda della tempesta a darci il colpo di grazia, visto che nessuna delle successive è stata capace di aiutare la barca a raddrizzarsi. Probabilmente basterebbe un colpetto leggero. Un’inezia!, affinché il braccio di leva della zavorra entrasse in funzione e facesse ritrovare allo scafo la logica del centro di gravità.
E il risveglio: tutto quel grigiore oltre l’oblò. È assurdo: avrei preferito affogare senza rivedere la luce della vita. La barca si agita: l’acqua che c’è nell’interno si mette a sciabordare e questo sussurro di risacca è decisamente sinistro. E poi il tumulto e Damien ridiventa Damien e si raddrizza sulla sinistra. È durato un secondo solo, e tutto si è svolto con aggressività selvaggia come per il grido del neonato all’atto della nascita. Ed è una nascita! Lottiamo febbrilmente contro gli oggetti che abbiamo radunato nei primi istanti della scuffia, nella vana speranza di provocare uno sbandamento e di aiutare la barca a raddrizzarsi: oggetti che ora volano pericolosamente e tentano di seppellirci. Lottiamo contro l’annegamento, contro l’acqua ghiacciata che s’insinua dappertutto. Ci vogliono ancora alcuni secondi per renderci conto che siamo vivi, che la barca galleggia sebbene molto bassa sull’acqua, comunque nella posizione normale.
Battiamo i denti, tremiamo, balbettiamo. L’interno della cupola è coperto di brina, il cui contatto con le dita fa aumentare i brividi che ci scuotono. Fuori il mare rompe meno, il vento ha mollato. I portelli dei gavoni poppieri sono al loro posto e così pure i tangoni e l’ancora ben rizzata in coperta sugli appositi golfari. Ma il Damien non è più una barca a vela, l’albero è scomparso. O, piuttosto, sfrega contro lo scafo, probabilmente rotto in molti pezzi, trattenuto dalle sartie Sarma, nessuna delle quali ha ceduto. Lo spettacolo sottocoperta è infinitamente desolante e soffoca sul nascere lo sprazzo di reviviscenza. L’acqua raggiunge il livello delle cuccette mentre gli oggetti sparpagliati dappertutto e il contenuto degli stipetti scoppiati ci ostacolano nel nostro faticoso arrancare quella fanghiglia. “Diamoci da fare”, incoraggia Jérôme. Il Damien affonda. Meno stabile di quando aveva la chiglia per aria, si ingavona di poppa. I gavoni sono semisommersi e vanno sotto quando un’onda fa oscillare la nostra povera barca, nonostante l’altezza dell’opera morta in quel punto. Speriamo che non aumenti l’inclinazione! Abbiamo circa 10 tonnellate d’acqua all’interno dello scafo e durante le prime due ore trascorse a sgottare riusciamo appena a impedire che il livello aumenti. Non ci arrischiamo ancora a sgottare attraverso la porta della cabina, il pericolo di un’altra onda frangente non è da escludere. Gran parte dell’acqua deve essere sgottata attraverso il lavello. Diamoci da fare, d’accordo, ma la prima scuffia e soprattutto quattro o cinque minuti sott’acqua ci hanno svuotati di ogni energia. Dio mio, quanto pesa un secchio con 20 litri d’acqua salata! A ogni movimento è un martirio di articolazioni bloccate, di muscoli intirizziti, di volontà impotente: quando ci si china, sembra di non potersi più raddrizzare. La notte scende rapidamente, occorrono luce, fuoco… Fuoco? Con la nostra riserva di pietre focaie per l’accendino che era esaurita…
Miracolo, il tavolo di carteggio non è stato sommerso: tutto ciò che si trova a una certa altezza sulla dritta è stato risparmiato dallo stillicidio dell’acqua, in quanto siamo stati coricati sulla dritta e siamo riemersi da sinistra… il giro a 360°. Troviamo due scatole di fiammiferi intatte. Occorrerà fare economia. La lampada funziona. Jérôme lavora come un bue, abbassa il secchio, lo riempie, abbassa il secchio, lo riempie, lo vuota, lo riempie, lo vuota… Tutto sta, afferma, nel trovare il ritmo. Spesso dobbiamo dedicarci allo stappamento del lavello, ostruito incessantemente da pezzi di carta, da lenze da pesca, da fili di nailon, da nastri magnetici, da pezzetti di carbone. Siamo scossi da tremiti parossistici e lavoriamo in uno stato di semi-incoscienza. Il livello dell’acqua sembra mantenersi all’altezza delle cuccette. Sguazzando, vado alla ricerca della bottiglia di whisky: ci darebbe la frustata che occorre. Alla fine scoviamo la bottiglia di rum di suor Carrère, donataci a Ushaia. Verso le 21 vinciamo la battaglia con l’acqua. Di quanta ne rimane sotto il pagliolato ci occuperemo a suo tempo. Il Damien è salvo! Un poco di petrolio, qualche pezzetto di legna umida e la stufa si rimette a ronfare. Tremiamo più di prima, la reazione nervosa si assomma alla fatica delle ore di sforzi sopportati in uno stato sub-umano. Ma questa fiammata è la nostra salvezza. Jérôme ritrova il tabacco d’Amazzonia e il necessario per arrotolarsi una sigaretta.
“Siamo salvi!”, esclama Jérôme. È vero, maledettamente buona questa prima sigaretta. Come il sorso di alcol poco fa, ha il gusto della vita.
– “Cosa fa il barometro?”.
– “966! Continua a scendere”.
Ci guardiamo l’un l’altro.
– “Bisogna andare!”.
– “Coraggio”.
Non è certo una gita di piacere il ricupero di quello che fu il nostro bell’albero Nirvana. La notte è gelida e, benché, il vento abbia mollato, il mare è sempre grosso e ci fa rollare di 90°. Fatichiamo come cani a issare a bordo i due tronconi, il boma con la randa attaccata che penzola miseramente. La rottura dell’albero si è verificata all’altezza della crocetta alta e ne troviamo subito la spiegazione: tre ferramenta di crocetta su quattro si sono rotte. Soltanto quella di una delle crocette alte ha resistito. La solidità dell’albero e il sartiame non c’entrano: sono le ferramenta le responsabili della rottura. Crediamo che qualsiasi albero si sarebbe rotto, probabilmente fin dalla prima scuffia. Il nostro albero era robusto: 10.40 m, 12 cm x 12 cm di sezione, costruzione metallica a regola d’arte con rinforzi interni speciali. Ma nel momento stesso in cui un’alberatura non è più trattenuta dal sartiame, perde ogni possibilità di resistere a tonnellate e tonnellate di pressione. Colpa di tre pezzetti di ferro… c’è da sghignazzare.
In coperta il casino è indescrivibile. Rizziamo tutto ciò che si è mollato, il più robustamente possibile. Torniamo dabbasso senza osare di dare un’occhiata troppo da vicino al barometro: la caduta continua. Per non essere più tentati di guardarlo, incolliamo un foglio di carta sul vetro del demoralizzante strumento. Fin dove scenderà? Ora è a 964 millibar. Dormire. Senza speranza di riposare, più che altro per cercare di dimenticare ciò che ci circonda, per far credere al corpo che nulla è cambiato. Le coperte sono inutilizzabili, tutto è bagnato, impregnato d’acqua. È un miracolo che il tavolo di carteggio sia stato risparmiato e che abbiamo trovato e potuto subito utilizzate dei fiammiferi asciutti. Senza quella fiammata… no, e poi chissà. Nell’uomo, l’animale ha una tal resistenza…
Ci raggomitoliamo come animali nella tormenta, l’uno contro l’altro, schiacciati sotto coperte talmente bagnate che facciamo fatica a spostarle. Meno di due ore più tardi scuffiamo per la terza volta. È successo mentre ci trovavamo in un tale stato di abbrutimento da rendercene conto a scoppio ritardato. Nulla si è mosso o rotto: accettiamo il fatto con il fatalismo di un pugile completamente suonato il quale non sa neanche più di essere ancora in piedi e continua a incassare i colpi. Nessun arbitro verrà a interrompere il combattimento. Quando i mari del sud si arrabbiano, vanno fino al limite della loro furia. Non riusciamo a dormire, a chiudere gli occhi per dormire. Visioni d’incubo scorrono nella nostra mente e ballano una ridda malefica: quei fiocchi di neve inafferrabili che sfuggono parallelamente a un orizzonte che non c’è più… quell’onda che non abbiamo veduto, fortunatamente… doveva essere davvero mostruosa… l’acqua gelida all’altezza del petto che continuava a salire…
di GÉRARD JANICHON
Traduzione di Gianni Botassis
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