1981. Porco cane, l’albero no! Come faremo a resistere?
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Porco cane, l’albero no! Come faremo a resistere?
Tratto dal Giornale della Vela del 1981, Anno 7, n. 11, novembre/dicembre, pag. 36/41.
L’epica navigazione di Rolly Go che disalbera in mezzo all’oceano, raccontata da Pierre Sicouri. Come sono riusciti a realizzare un’attrezzatura di fortuna e raggiungere Cape Town in Sudafrica classificandosi, incredibilmente, primi degli italiani alla tappa del giro del mondo.
Pierre Sicouri. La tragica notte del disalberamento
In questo testo Pierre Sicouri racconta la disavventura accaduta al Rolly Go mentre navigava nelle prime posizioni della regata verso Cape Town. La seconda tappa del giro del mondo è in pieno svolgimento verso Auckland, ma Pierre non è della partita a causa del grave incidente accorso alla compagna Paola Pozzolini e del quale diamo notizie in questo servizio.
Sono le cinque di mattina e le strade di Cape Town sono ancora deserte. Sguscio tra i palazzi coloniali e gli immensi grattacieli del centro. Ad ogni bivio, le folate del forte vento di sud-est sollevano ogni cosa. Mi dirigo verso la montagna che sovrasta, regina, la città: la Table Mountain. Si staglia nella luce chiarissima dell’alba, coperta dal suo manto di nuvole, che precipitano a valle dissolvendosi poi rapidamente nel nulla. Le case si diradano e punto sul colle che separa la collina del Leone dalla Tavola. Quest’anno forse, non potrò scalarla. La tappa sarà brevissima ed abbiamo molto da fare per prepararci per le tempeste future dei “quaranta ruggenti”. Le mie gambe mi trascinano verso l’alto mentre la mente comincia a rievocare. Mi ripassano davanti alcuni momenti intensi di questa prima tappa.
Ecco Jepson, agitatissimo, follemente preoccupato. Abbiamo oltrepassato le Canarie da un paio di giorni, e seguendo un’intuizione di Giorgio Falck costeggiamo da vicino la costa dell’Africa per sfruttare una corrente favorevole. La corrente c’è, però il vento sta calando, e il marinaio ponzese teme la bonaccia più della peste. Durante la notte ci investe uno dei tipici tornado africani. Una piccola striscia di nubi si avvicina velocemente. Improvvisamente il vento rinforza oltre 40 nodi e mentre stiamo tutti appesi allo spi per ammainarlo, anche la direzione ruota di 90°. È ora la volta di un acquazzone fortissimo di gocce tiepide, prima di rimanere addirittura in calma di vento! L’alba ci scoprirà un manto giallo di sabbia del deserto che ricopre vele, albero, e sartie. Incontriamo un peschereccio francese che sta salpando, le reti cariche di aragoste! Tratteniamo a stento Jepy e tiriamo dritto… È ora la volta di un grosso squalo: un pesce martello! Ci gira sornione intorno, raggiunto poi da due compari. Ci accompagneranno per molte miglia, comparendo a sorpresa a prua o sotto la barca, con pinna dorsale mollemente rizzata sul pelo dell’acqua. In queste stesse acque, Antonio Chioatto danneggia il suo skeg. Mentre è sotto lo scafo di Traité per alcune riparazioni di fortuna, si immerge per controllare il bulbo. Quale non è la sua sorpresa quando oltre la pinna scorge lo sguardo torbido dello squalo che lo fissa a pochi metri. D’istinto si nasconde dietro il bulbo, poi schizza fuori e con un balzo solo arriva fin in coperta.
L’equatore si avvicina
Si avvicina l’equatore e s’incominciano a delineare le tattiche che condizioneranno l’esito di tutto il Giro del Mondo. Berge Viking, Save, Swedish si buttano a terra; Morbihan, Charles Heidsieck, Flyer e Kriter poco più fuori, mentre noi stiamo 3 gradi più a Ovest, per evitare le calme e tentare di aggirare l’anticiclone del Sud-Atlantico. Outward Bound e Gauloises sono ancora più fuori. All’equatore si rincorrono gli immensi funghi, cumuli carichi di pioggia. Il nostro acquaiolo di fiducia, Giuly, ne raccoglie parecchia. Questa si rivelerà poi vitale nelle peripezie del fine regata. E inizia la bolina più dura di tutte le regate oceaniche. Quattordici giorni di bolina stretta, contro mare e vento, provano incredibilmente tutti, materiali. Questa bolina la dedico ad Andrea e al suo buon carattere. È l’unico che, anche svegliato a mezzanotte per uscire a prendere una guardia umida e fredda, sorride. Lui sorride alla vita, e lei lo contraccambia allegramente. Sta vivendo questa nuova esperienza atlantica con gli occhi spalancati e curiosi dell’adolescenza, e l’entusiasmo dei suoi 19 anni. S’immerge a turno nella ricerca delle stelle, nei segreti della navigazione astronomica, e nell’ultimo romanzo di Wilbur Smith “Come il Mare”. Questa bolina è stranamente deserta quest’anno. Pochissimi pesci volanti. Riusciamo solo a raccogliere qualche calamaretto finito inavvertitamente in coperta. Poche le nuvole caratteristiche dell’aliseo, poco sole. Care Pilot Charts… siete delle emerite bugiarde! Siamo giunti al momento cruciale della regata. Il nodo sta per sciogliersi siamo alle soglie dell’anticiclone. La nostra posizione è ottima, tra il terzo ed il quinto posto, e vedo in netto vantaggio solo Charles Heidsieck e Kriter che hanno avuto più vento davanti. Lentamente, il vento ruota, scapoliamo la dorsale ancora due giorni, ancora un giorno e poi è fatta! Via libera in poppa verso Cape Town
Un boato nel buio
Amico Enrico, brillante compagno di navigazione, ricorderai a lungo quella notte. Sei fuori al timone, di bolina con 20-25 nodi di vento. È quasi mezzanotte del 2 ottobre. Il Rolly Go è leggermente orziero e ti chini in avanti per mollare due dita di scotta di randa. Nell’attimo in cui tocchi il winch, scoppia un botto, un tonfo sonoro. Come scottato tiri indietro la mano di colpo, ma qualcosa è mutato. Davanti hai solo il buio. Il muro bianco delle vele è improvvisamente scomparso: si è mollemente adagiato oltre la fiancata di dritta sul pelo dell’acqua. Abbiamo disalberato! La barca si è raddrizzata e provo subito un senso fisico di sollievo. I muscoli contratti in ogni momento per la bolina si rilassano di colpo. Poi mi guardo intorno e valuto in un attimo l’entità del disastro. La coperta è devastata. Sartie, cavi e vele. pendono da ogni parte. Del nostro albero di 20 metri è rimasto solo un mozzicone di due. Un’infinità di pensieri mi assalgono. “Porco cane, l’albero no, non è possibile. Tutto, ma questo no! Addio regata siamo gli ultimi… E ora dove andiamo, in Sud America?… Ma come faremo a resistere con l’acqua, con i viveri che stanno ormai finendo… E come potrò tenere a bada Jepson, fargli mantenere un minimo di calma…”.Provo rabbia e un sentimento di profonda nausea m’invade. Basta con le recriminazioni.
Scarto ogni pensiero e mi proietto interamente nell’azione. Siamo tutti in coperta, al buio, atterriti. “Forza, prima le vele! Sfiliamo le vele”. L’albero è rotto in tre pezzi. Uno di 2 metri che sporge dalla coperta con il boma, uno di sei fino al primo ordine di crocette e uno lungo, di 13, che s’inabissa alla luce dei flash, trattenuto dalle vele e dal groviglio di cime. Il pezzo di albero picchia fortissimo contro il bordo libero. “Taglia, taglia tutto che ci manda a fondo!”. “No, non tagliare un bel niente. Infiliamo un parabordo tra l’albero e lo scafo. Ok perfetto così non ci sono più problemi. Dai, sfiliamo queste benedette vele”. Miracolosamente riusciamo a sfilare le due vele, lentamente, piene di acqua e di squarci. Poi molliamo tutte le sartie, una per una; scotch, copiglia, cacciavite, martello, coltello, pappagallo; e buttiamo il tutto in mare. Alcune sartie di tondino sono tese come fionde e dobbiamo ingegnarci per scaricare le tensioni. Il pezzo più lungo del l’albero si è definitivamente rotto e vaga libero vicino alla barca. Ora è realmente pericoloso. Molliamo tutto quello che lo trattiene, sfiliamo, una per una, tutte le drizze poi lo caliamo per due cime: una legata allo stralletto e la drizza dello spi esterna regolarmente passata nel suo bozzello e debitamente allungata. L’albero affonda lentamente, il windex e la testa in giù e tutto il resto dietro. Scrutiamo l’abisso con i nostri ridicoli lumini, un po’ ansiosi di sapere se, in questa notte buissima, questa magnifica barca da regata che è stata improvvisamente ridimensionata a ridicola chiatta, è ancora legata con un effimero cordone al suo albero. Lentamente ci organizziamo. “Un turno sotto a riposare, uno fuori. Domani avremo bisogno di tutte le nostre energie per rialberare. Con l’oscurità si può combinare poco. Enrico, tu ritorni in turno con loro per sincronizzare le operazioni”. Sono le quattro. Loro s’impegnano nel recupero del secondo, piccolo pezzo. È rimasto collegato al primo da una striscia di alluminio stortata, sottile, ma durissima. Si spezzano le lame della sega da ferro. Cambiamo allora tattica. Lo leghiamo al boma e, cazzando alternativamente scotta e ritenuta in un lento movimento di 90°, sgretoliamo i rimasugli di alluminio.
E ora che facciamo?
Scendo in cuccetta per accumulare energia per l’alba. La barca è insolitamente, assurdamente piatta e agitata soltanto da un corto e nervoso rollio. Mi battono le tempie fortissimo e più che rilassarmi riesco sol- tanto a concentrarmi intensamente. La causa del disalberamento: è partita la sartia bassa di sinistra. Maledetto rodrigging. Eppure era la più grossa di bordo, circa 20 tonnellate di carico di rottura. Che sbaglio. Dovevamo partire con dello spiroidale. Però ci sono almeno quindici barche con le nostre stesse sartie. Che sfortuna! Che fare? Due possibilità. Con i tangoni rizzati in coperta, come nei manuali, sicuramente riusciamo a muoverci. È un po’poco però. Certo che l’ideale sarebbe recuperare il pezzo di albero sotto la barca ma come? L’albero completo con le sartie pesava 600 chili. La metà con le sartie peserà circa 400, come diavolo faremo per tirarli a bordo e issarli?
“Bum, bum, bum“. Qualcosa mi batte nel palato e mi rimbomba nella testa. Sono calmissimo, ma terribilmente concentrato. Comincio ad abbozzare manovre nella mia testa. Il boma! Già, il boma…”Pierre“. Arrivo. Tocca a noi. Salgo in coperta e rimango ammutolito. Bravo Henry! La coperta è in ordine perfetto, il pezzo di albero tagliato, coricato e legato in coperta. Chissà come hanno fatto a fare così tanto lavoro. Dai Guido, ora tocca noi. Lentamente albeggia. Noto che molti candelieri di dritta si sono spezzati. La fiancata è solo un po’ graffiata, ferite superficiali. Il mare è piuttosto calmo, forza 2-3. Ci sono molti uccelli che ci passano vicinissimi: non facciamo veramente più paura a nessuno! Allora, prepariamo un bozzello sul boma, aperto a 90°. Isseremo l’albero parallelamente alla barca, a un metro dalla fiancata. Non deve assolutamente picchiarci contro, se no ci butta a fondo. Cima, controcima, bozzello, winch, maniglia, ok.
“Vai, salpa!”. Issiamo l’albero prima per la testa dai passacavi di prua. “Guarda che si rompe… Dai! Cazza senza paura. Guarda che sta per picchiare… Dai!”. Non dò retta a nessuno. Inseguo fisso la mia idea. L’albero lentamente ricompare, come un fantasma nell’azzurro. Poi il windex e la testa emergono lentissimamente. È una scena assolutamente incredibile, surreale. Questo albero che resuscita e riemerge dagli abissi. Un albero ce l’abbiamo. Dobbiamo farcela, riacquistare la nostra nobiltà di yacht. Issiamo anche l’altro cavo e dopo lunghi emozionanti attimi l’albero si ritrova a pelo d’acqua, lungo la fiancata della barca. Sfiora lo scafo, ma non lo ha mai toccato. La manovra sta funzionando alla perfezione. Escono gli altri a darci man forte, e ora sono loro ad essere stupiti. Abbozzo un primo leggero sorriso. Imbraghiamo meglio l’albero e lo issiamo ancora un po’. Rimane un piccolo problema: il metro che lo separa dalla coperta. “Guarda che un boma non è fatto per lavorare in compressione, ora si rompe!”. “Stai zitto!”. “Cazza ancora! Ancora!”.
La manovra più emozionante e preoccupante della mia vita
Insomma, tira di qua molla di là, manovriamo quel pezzo lungo quasi come la barca, che ora ci sembra immenso, smisurato, con molta precisione, e il miracolo accade. Alle 9.30 l’albero è coricato in coperta. Smontiamo febbrilmente il vecchio sartiame, e riarmiamo quello nuovo, a base di drizze d’acciaio e di cavi di spiroidale e di gleinstein. Sfiliamo la base sotto la giuntura, e rimaniamo con mezzo albero e un ordine di crocette, alto dodici metri. Ci interrompiamo tutti per il pranzo. Paola ci ha preparato una leccornia e contribuisce moltissimo a risollevarci il morale e a ridarci forze nuove. Fuori è tutto pronto: sartiame perni, drizze, con il piccolo dettaglio che c’è un caos inverosimile in coperta. E ora come lo rizziamo questo albero di 250 chili e 12metri? Un attimo di riflessione e la risposta arriva, ovvia. Con il più lungo braccio di leva che ci sia a bordo: il tangone. Lo rizziamo a poppa dal foro per l’albero in coperta con quattro venti e una drizza. Il vento, ovviamente, è rinforzato e si rolla parecchio. Il tangone va su, ma molto meno facilmente del previsto. Spostiamo l’albero verso prua a braccia, e puntiamo la base nel foro della coperta. Sono per un attimo invaso dallo scoramento e dalla paura. Tutti mi guardano con apprensione, in silenzio. È folle, quest’albero incomincerà a ballare come un demone, e rischiera di cascarci addosso, ferendo qualcuno magari! Inghiotto la saliva e do l’ordine di issare. Grado per grado, l’albero sale. Lo teniamo perfettamente trincato longitudinalmente e lateralmente. Andiamo avanti a centimetri di maniglia, con numerose soste per modificare angoli sbagliati, o mettere in chiaro tutte le manovre correnti. Uno per uno, guadagniamo i fatidici 90°. Infine lo caliamo lentamente, ed alle 17 siamo nuovamente uno sloop che naviga a 5 nodi. Siamo stanchissimi ma felici. Direi che in assoluto, è stata la manovra più emozionante e preoccupante della mia vita. Ora si pone un problema urgentissimo: rifare un gioco di vele. Il nostro velaio, Giuly mugugna ma fa meraviglie. Con Enrico mettono alla luce il «nano», uno spi 0,75 da lasco, un genoa e una randa. Cerchiamo di camminare il più forte possibile per riuscire a prendere la partenza delle altre tappe. Forti dell’esperienza di Ceramco armiamo un secondo albero di fortuna: il tangone rizzato sulla rotaia della scotta della randa e Rolly Go è diventato ketch! Così portiamo anche un blooper annodato soprannominato «balonetto» che ci fa guadagnare un altro nodino. In poppa si vola! Il nostro record da ketch è di oltre 11 nodi! Dall’Italia arrivano buone notizie: l’ingegnere ha fatto miracoli. Grazie al filo-radio che ci unisce con Milano è riuscito a rimediare un nuovo albero a tempo di record ed è incominciato il conto alla rovescia per essere alla partenza per Auckland. I maggiori problemi tecnici sono risolti. Ma il vero problema di questo disalberamento è quello psicologico. Qualcuno è crollato per la depressione, qualcuno per lo stress e la fatica. Siamo tutti tesi e stanchi. Paoletta farà miracoli. Fino ad ora ha fatto i suoi turni normalmente. Ora, ha anche un delicatissimo compito: il razionamento dei viveri e dell’acqua. Ha conteggiato tutto e ci distribuisce ogni giorno le razioni: un bicchiere d’acqua quattro biscotti, due fette di pane, un quadretto di cioccolato e un pasto caldo. S’ingegna anche per mettere un pacchettino sorpresa di frutta secca o altro. Insomma, da lei ho tratto la sicurezza di potere alimentare regolarmente tutti fino alla fine. Si allenta così la tensione, però queste 1500 miglia da percorrere fino a Cape Town resteranno tutt’altro che banali.
La Table Mountain è in vista
A Guido associo la combattutissima battaglia del Nagrafax. Guido ha lottato strenuamente contro il nostro decodificatore meteo. Per un lungo periodo l’apparecchio, dispettoso, scioglieva isobare, freccette, cifre in un unico pastone indecifrabile. Guido si accaniva, perdeva ore e ore di sonno invano. Infine qualcosa venne fuori e lui mi portava fuori trionfalmente strani graffiti come dispacci di guerra. Poi un altro blackout dal giorno del disalberamento. Insomma la battaglia del Nagrafax, l’abbiamo proprio persa! In vista della Table Mountain, ci gratificherà però di una bellissima, ormai inutile cartina… Guido, di battaglie, ne ha vinte ben altre. A bordo lavoravamo in perfetta sintesi, e il suo entusiasmo e la sua bravura sono stati determinanti nella condotta della barca. Stimolato dalla lettura di Darwin, studiava ogni tipo di animale incontrato. Ha anche costruito un retino con il cerchione di un sacco dello spinnaker, per catturare, osservare ed eventualmente mangiare (sigh) tutti gli animaletti che vagano in questo oceano vivo. Eccola! La Table Mountain è in vista. Ce l’abbiamo fatta! Riusciamo incredibilmente anche a battere sei barche in tempo compensato e ad essere primi degli italiani! Ma forse ciò che più di tutto ci fa piacere è la frase con cui ci accoglie l’ammiraglio Williams: “You gave a great example of seamanship!” (voi date un grande esempio di come si è uomini di mare).
Testo e foto di Pierre Sicuouri
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