1998. Ciao Tabarly, mito della vela indimenticabile

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Ciao Tabarly, mito della vela indimenticabile

Tratto dal Giornale della Vela del 1998, Anno 24, n. 6, luglio, pag  16-17.

In una notte di giugno del 1998 al largo delle coste del Galles scompare in mare Eric Tabarly, icona della vela, una delle figure più straordinarie, un marinaio e un velista che ha fatto sognare con le sue imprese e le sue barche Pen Duick. Il ricordo di chi lo ha conosciuto bene.


Eric Tabarly, la vita, l’oceano

Si è parlato di Eric Tabarly simbolo della leggenda della vela oceanica, quella dei pionieri, delle scoperte, dell’avventura priva di sponsor e professionismo. Si è scritto di Tabarly anche come inventore della vela moderna: il primo a sfidare l’oceano con un grande trimarano, Pen Duick IV; ad applicare dei foiler sotto gli scafetti del tri Paul Ricard; a pensare a un “hydroptère” , il cui concetto verrà ripreso anni più tardi per i record di velocità. Si è parlato soprattutto di Tabarly grandissimo marinaio. Si è detto forse poco dell’uomo. Piccolo, dal volto enigmatico che gli era valso l’appellativo di “sfinge bretone*’. Quando per primo batte il record transatlantico di Charlie Barr, si sa del suo exploit solo alla fine: è il suo stile. Quando vince la Ostar nel 1976, è da solo su un ketch di 22 metri che richiede normalmente dodici uomini. Rompe il timone a vento, per due volte è tentato di ritirarsi. Per giorni non si hanno sue notizie… invece, inatteso taglia il traguardo. La Francia gli tributa tutti gli onori. Agli organizzatori che gli rimproverano di non avere dato notizie, replica semplicemente: “Non ne avevo voglia“. Tabarly era fatto così. Riservato e laconico, non amava la pubblicità, la folla, le comunicazioni radio. “Non siamo in mare per chiacchierare“. Ciò che più amava sopra ogni cosa era vivere in simbiosi con la barca e con l’oceano. Non gridava mai, raramente dava ordini, rifaceva in prima persona ciò che non andava bene. Era rigoroso e severo, innanzitutto, con sé stesso. Diceva: “non posso chiedere ai miei uomini qualcosa che io non so fare“. “È come un albatros” ha detto una volta Myriam, l’unica donna che abbia mai avuto l’avventura di far parte del suo equipaggio in regata, “goffo a terra, affascinante in mare”.

Io lo conoscevo bene

In quella posizione, Eric mi sembrava una mosca… Il bizzarro effetto ottico di una tavola da carteggio basculante, l’inusitata inclinazione della barca a 50 gradi, che balza come un folletto incalzato dagli alisei da sud, il gioco incredibile del nostro cervello che trova le proprie verticali del nostro mondo domestico, anche se esse sono inclinate a 50 gradi, tutto ciò contribuiva a farmi assomigliare il nostro eroe, che faceva coscienziosamente i suoi calcoli di retta d’altezza, all’insetto che ha il minor senso di verticalità. La sua superiorità era là: lui solo aveva accesso al trono della barca: la tavola da carteggio sui cardani, lui solo aveva diritto a stare orizzontale, gli altri si rannicchiavano in un mondo quasi capovolto.

Lui solo… lui solo. Ripeto spesso queste due parole, scusatemi, ma ne vale la pena. Lui solo è capace di vincere la Transatlantica spendendo soltanto 150 mila franchi, mentre gli altri annegano nei milioni… e nelle cambiali. Lui solo capisce che una barca è vincente soltanto se il timoniere è in forma, se è umano, se è marino. Lui solo ama il mare sufficientemente per sapere che rifiuta i mostri, le barche più adatte a far vendere prodotti e incantare la gente che ad affrontare un forza 8. È questo non è cosi semplice da capire! Ma non è certamente sull’Ostar che mi voglio soffermare. Al contrario – ed è una caratteristica tipicamente femminile – mi voglio occupare dell’uomo. Con lui ho trascorso due anni di regate, ho percorso ventimila miglia, traversato due volte l’Atlantico e vi assicuro che non c’è niente di meglio, neppure un divano dello psicanalista, per approfondire un personaggio. È certamente l’uomo più scostante che un giornalista possa incontrare. Un inviato speciale di France Soir volò attraverso il mondo, da Parigi a Hobart, per avere il suo libro di bordo. Costernazione: non conteneva che alcune cifre! Il povero, cercando di cavargli allora un’intervista: “Mi dica almeno le sue impressioni sulla regata‘”. “Impressioni – rispose Tabarly – non ne ho mai“.

Un’altra volta, era il settembre 1974, al giro del mondo, e noi navigavamo con un forza 10: yankee e trinchetta, randa con tre mani di terzaroli, di notte. Io ero spossata per aver cucinato per un’ora e mezza nella cucina più sbatacchiata del mondo e mi stavo riposando in cuccetta, afferrandomi tutte le volte che la barca partiva in picchiata nel cavo di un’onda, quando accadde qualcosa di non abituale. All’improvviso – nessuno aveva capito, salvo Eric, che cosa stava accadendo – senza alzare la voce disse: “Merda, abbiamo ancora disalberato!“. Un valore di oltre centomila franchi, vele comprese, inghiottite in mare, il mondo nautico che lo avrebbe messo in berlina per la terza disalberatura, la nostra bella crociera alle Antille svanita, e nessuna emozione che passasse davanti agli occhi chiari di Eric. Io penso a lui come a uno stagno tranquillo… c’è qualcosa in lui, a livello di coscienza, che blocca gli impulsi più nomali. Come se una censura severa costringesse il suo cervello, all’interno e all’esterno, fra la realtà e la sua mente. La sua forza è in questo, nella sua calma che contagia l’equipaggio, che placa le polemiche, che riorganizza senza una sola parola l’anarchia. È una forza o, se si vuole, un coraggio che non gli viene dall’aver conosciuto tutti gli oceani o dall’avere attraversato tutti i mari, ma che gli viene dall’interno, da qualche genietto incomprensibile. Deve vincere sicuramente qualcosa in lui, forse suo padre o forse qualche altra cosa. Certamente quelli che pagano sono i suoi avversari. Ridotti, rispetto a lui, a uomini di paglia che parlano, parlano…

Testi di Paola Pozzolini e Myriam Marello


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