1993. Il giro del mondo in 80 giorni

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Il giro del mondo in 80 giorni

Tratto dal Giornale della Vela del 1993, Anno 19, n. 5, giugno, pag  38/43.

Come anticipato da Jules Verne oltre un secolo prima, Il francese Loick Peyron entra nella storia circumnavigando il Globo in 80 giorni. Diventa un eroe come Colombo, Magellano, Vasco de Gama. Vince il trofeo che si chiama, appunto, Verne e s’intasca un milione di dollari.


Un mondo lungo un libro

Grande Verne, grande Peyron. Il primo per aver immaginato con esattezza, oltre un secolo fa, il limite fisiologico della circumnavigazione del mondo; il secondo per averla compiuta in meno di 80 giorni. La vela ha un nuovo eroe, francese naturalmente. 

Ancora tanto così. Faceva segno Bruno Peyron alla figlia Alessandra, sette anni, quasi unendo pollice e indice della mano destra. Sulla sponda del porto canale di Poliguen, una delle due estremità del golfo di La Baule, quella più ridossata, stava entrando nel tardo pomeriggio, al traino di un rimorchiatore chiamato Cote d’Amoure, il catamarano Commodore. Chiaro che il primo pensiero del suo skipper, Bruno Peyron, fosse rivolto alla figlia, la stessa che la mattina, in diretta televisiva, nel corso di un collegamento via radio col papà si era nascosta sotto il tavolo alla ricerca di un minimo di privacy e giustamente indifferente alle regole dello spettacolo.

È stato commovente l’epilogo del Giro del Mondo in 80 giorni C’erano migliaia di persone, impressionate dal record (79 giorni, 12 ore, 15 minuti e 56 secondi), dalla sfida al mito di Giulio Verne e anche dalla dinamica stessa della traversata, fatta di collisioni col ghiaccio, incontri con le balene e persino un rischio di naufragio a Capo Horn, dove il vento ha fischiato oltre gli 80 nodi. Quelle migliaia di persone erano state folgorate da questo incredibile intreccio tra letteratura, attività della fantasia, e realtà. Pareva inverosimile che Verne, 130 anni prima, avesse praticamente indovinato il limite reale del tempo necessario a completare il giro del mondo, ma è successo.

Bruno Peyron ce l’ha fatta ed e diventato un eroe. Si, un eroe sul serio, al punto che un quotidiano della mattina piazzava la sua foto accanto al ritratto di Vasco de Gama, Ferdinando Magellano, Cristoforo Colombo e Jacques Cartier (macché orologi, è lo scopritore del Canada). Sarà la storia a definire la grandezza del navigatore Peyron, classe 1954, bretone – e di dove sennò – figlio di un capitano di lungo corso e con 27 traversate atlantiche sulle spalle. Oggi la sua impresa appare obiettivamente esaltante. È per questo comprensibile il suo entusiasmo all’arrivo, quando finalmente ha messo piede a terra e si è lanciato, giusto sotto i nostri occhi, in un lunghissimo abbraccio con la figlia, che è finito in un oceano di lacrime. E pensare che lo descrivevano come un duro, senza amici, lontano dal clan che conta della vela francese, quello di Tabarly e dei suoi protetti.

Non sembrava un duro quella sera Peyron, pareva Dustin Hoffman, affascinante, felice, come lo si può essere dopo aver domato l’oceano. Perché la sua vittoria nel trofeo Giulio Verne – e il milione di dollari che ne conseguono – non sono il frutto del caso o della fatalità, bensì della volontà e dell’organizzazione. Con Commodore era partito il cat Enza condotto dall’ex skipper di Steinlager Peter Blake insieme a Robin Knox Johnston, una settimana prima i trimarano Charal, quello sponsorizzato da Raul Gardini, che aveva alla barra Olivier de Kersuason. Charal, che comunque correva al di fuori delle regole del trofeo non avendo rispettato neppure la linea di partenza (che poi era la stessa d’arrivo, tra l’inglese Cape Lizard e l’isola francese di Ouessant) oltre ad aver ipotizzato alcune soste tecniche espressamente vietate, è uscito ben presto di scena, prima di doppiare Buona Speranza. Problemi allo scafo, probabilmente delaminatosi, anche se la versione ufficiale parla di incontro ravvicinato con iceberg alla deriva.

 

Un’impresa per pochi

Pochi giorni dopo il monoscafo di 43 metri Tag-Heuer, costruito da Tencara e varato in pompa magna a Venezia lo scorso 6 febbraio per Titouan Lamazou con lo stesso obiettivo del giro del mondo entro 80 giorni, subiva una seria avaria allo scafo al largo di Brindisi. Anche qui problemi strutturali, le costruzioni in carbonio di tali dimensioni evidentemente richiedono ulteriori sperimentazioni. Poi è la volta del ritiro di Enza, piegata dall’ennesimo problema tecnico. Insomma, una ecatombe che spazza tutto e tutti, quasi un segnale sovrannaturale che sta a indicare che l’impresa è “tosta” e vicina al limite, il confine che respinge l’uomo quando osa troppo. Peyron ha osato, ha viaggiato lungo quel limite in più di una occasione, ma gli è andata bene. Perché è bravo, ha avuto fortuna, perché la sua attrezzatura ha retto e il suo equipaggio era fortissimo: Olivier Despaigne 48 anni, Jacques Vincent, 30 anni, Cam Lewis, 34 anni, Marc Vallin 35 anni.

Commodore, lungo fuori tutto 28 metri e largo 13 e 60 con 31 metri di albero, disloca a pieno carico 10 tonnellate e altro non è che il vecchio Jet Service V costruito nel 1987 e con il quale Serge Madec stabilì nel 1990 il record sulla traversata atlantica da Ovest verso Est in 6 giorni, 13 ore e 3 minuti. Il cat, disegnato da Gilles Ollier e costruito da Multiplast, ha dimostrato una eccezionale resistenza nei tre momenti critici della circumnavigazione del globo, iniziata il 31 gennaio. Il 28 febbraio due onde aprono una fessura di 40 centimetri nello scafo di sinistra, sotto la linea di galleggiamento. II 24 marzo, a poche decine di miglia da Capo Hom, una depressione di impressionante violenza travolge Commodore. A bordo si teme il peggio e ci si prepara ad abbandonare lo scafo, che scarroccia alla cappa verso la costa cilena. Per 12 ore il vento resta sopra i 75 nodi, con numerose puntate oltre gli 80. Poi lentamente si placa e Peyron può tornare sulla giusta rotta entrando in Atlantico verso le otto di sera del 25 marzo con tre mani di terzaroli alla randa. II 16 aprile Commodore è al suo settantacinquesimo giorno di navigazione e il record sembra decisamente alla sua portata, ma a guastare la navigazione, ormai tranquilla, ci si mettono due balene, quando persino l’insidia delle calme equatoriali è ormai dietro la poppa.

 

Ghiacci, avarie, tempeste e per ultime le balene. Il catamarano Commodore ha dovuto lottare contro tutti questi elementi, oltre che col tempo.

 

La collisione con le balene

Le storie delle collisioni tra cetacei e barche a vela nell’immensità dell’oceano lasciano sempre strabiliati noi terrestri che le vediamo probabili quanto un incontro simultaneo al centro della terra tra due speleologi partiti l’uno dall’Italia e l’altro dalla California. Eppure sono accadute e continuano ad accadere. come su Commodore, dove di balene quel giorno ne sono arrivate addirittura due contemporaneamente per tranciare di netto la deriva dello scafo sinistro e aprire una falla di quasi tre metri di lunghezza. In questi casi tutti si preoccupano della barca e nessuno degli animali. Di loro sappiamo solo che sono scomparsi con un colpo di pinna, anche se immaginiamo quello che hanno pensato: “che accidenti ci fanno questi qui, perché non se ne stanno a casa loro, noi mica andiamo a curiosare nelle loro città”.

Commodore era ferito, ma non ancora da abbattere. Per fortuna la falla era compresa tra due paratie stagne che ne contenevano l’estensione, si trattava soltanto di sperare nel vento da sinistra per spingere quello destro in acqua e sollevare quello ferito. Così, se pur con qualche patema, è stato e il record giustamente è arrivato. Di tutto questo erano perfettamente a conoscenza le migliaia di persone convenute a La Baule per salutare Peyron e la sua banda. Cam Lewis era avvolto in una bandiera americana e urlava “Vive la France” evidentemente ubriaco, l’aria della primavera era tiepida e piovevano torrenzialmente congratulazioni, interviste, foto e autografi. Più tardi, in un grande auditorium della cittadina, un altro bagno di folla e la possibilità per tutti di sentire le loro voci, non ancora inquinate dalla consuetudine dei rapporti terrestri, per questo ancora cariche di poesia.

Sentite lo skipper: “No, non credo che scriverò un libro su questa avventura, mi pare che ce ne sia già uno piuttosto ben riuscito con lo stesso titolo e non voglio certo mettermi in competizione con Giulio Verne. Quando ho capito che potevamo farcela? Abbastanza presto, dopo neppure una settimana di navigazione ho avuto una immagine che ha finito di accompagnarmi con la sua forza per tutto il viaggio. C’era la luna, era notte e tutto procedeva tranquillo. All’ora del cambio turno ho visto per un attimo tutto l’equipaggio insieme. È difficile spiegarlo, ma in quel momento ho capito che aravamo un buon gruppo, che avevamo fatto molta strada, mi sono sentito bene e parte di loro. È una sensazione che mi è stata utile nei momenti cruciali, ma devo dire che ci si abitua a tutto, anche ai 50 nodi stabili. Mi capitava di uscire fuori, guardandomi intorno, leggere l’anemometro, vedere la pioggia battente, la randa con tre mani di terzaroli, avvicinarmi al mio compagno al timone per dargli il cambio e chiedergli: come va? La risposta era sempre la stessa: benissimo”.

È così che Peyron ha stabilito il nuovo record della circumnavigazione del globo senza scalo, in meno di 80 giorni, meglio della fantasia di Verne.

Luca Bontempelli


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