2014. La straordinaria vita controcorrente di Carozzo
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La straordinaria vita controcorrente di Carozzo
Tratto dal Giornale della Vela del 2014, Anno 40, n. 01, febbraio, pag 70-75
Il primo navigatore solitario italiano si chiama Alex Carozzo. Ha iniziato nel 1965 con una transpacifica da Tokyo a San Francisco a bordo di una barca che si è autocostruito nella stiva di una nave americana. Ma non è solo che l’inizio di una serie di avventure memorabili, che lui stesso racconta.
A 81 anni, Alex Carozzo si prepara a una nuova sfida: la traversata Venezia Galapagos a bordo di un 9,60 metri autocostruito: l’ennesima impresa dell’unico italiano capace di sfidare in oceano Tabarly e Moitessier.
Arrivo trafelato a Lerici, temendo di essere in ritardo. L’ho inseguito per mesi, e ora non me lo voglio far scappare. Alex Carozzo, che ho provato a contattare telefonicamente, via mail e tramite un suo assistente, senza successo, è nel Golfo dei Poeti per parlare della sua nuova avventura: a 81 anni suonati è intenzionato a partire, con una barca a vela di 9,60 metri in compensato marino (il Last Lion) che si è interamente autocostruito in due anni e mezzo a San Felice del Benaco (Brescia), alla volta delle Galapagos. Salpando da Venezia e passando per lo stretto di Panama, 6000 miglia in totale. Leggendo un vecchio portolano inglese, una trentina di anni fa, Carozzo era stato colpito da alcuni toponimi sulla cartografia di San Cristobal, l’isola principale dell’arcipelago: Punta Lido, Frangente degli Schiavoni, Punta Malamocco. Nomi tipicamente veneziani. E lui, un curioso tipicamente veneziano (anche se nato a Genova), ha compiuto alcune ricerche scoprendo che i “battesimi” di tali luoghi sono frutto di una spedizione scientifica compiuta nel 1884 dalla corvetta a vapore di 80 metri Pier Vittor Pisani, ultima nave oceanografica in legno realizzata a Venezia. Da qui il sogno di ripercorrere la rotta da “veneziani odierni”. Ma perché ha dovuto aspettare 30 anni? “Lo faccio ora” – mi racconta al tavolino di un bar in piazzetta a Lerici, gli occhiali a specchio, la barba bianca e il fisico di un ragazzino – “perché prima ho fatto altre cose”. E sono proprio le “altre cose” portate a termine da Alex che mi fanno capire la persona che ho davanti. Appena troverà i fondi, partirà subito per le Galapagos, e ci arriverà anche. Non si tratta di vaneggiamenti di un vecchio rimbambito, ma dell’ultima traversata di un grandissimo uomo di mare.
Alex e il pacifico
Alex Carozzo nasce a Genova nel 1932, ma si trasferisce a tre anni nella Serenissima, dove frequenta l’istituto nautico e l’Accademia navale per poi entrare nella Marina Mercantile come ufficiale di rotta. Negli anni ’40, intanto, si era avvicinato alla vela per la prima volta frequentando la Compagnia della Vela di Venezia, salendo su Snipe, Star e 5.50. “Non sono andato a scuola di navigazione” – racconta – “quello che so, l’ho imparato da autodidatta. Le cose, per impararle davvero, bisogna farle; altrimenti finisci per commettere gravi errori”. È così Alex. Concreto nell’animo. Nel 1965 diventa il primo navigatore solitario italiano: attraversa il Pacifico, da Tokyo a San Francisco, a bordo del Golden Lion, una barca che si era costruito durante i turni di riposo e con attrezzi di fortuna nella stiva di una nave americana su cui era imbarcato, il Liberty. L’anno successivo è l’unico italiano a partecipare, sul trimarano Tristar, alla prima Transpacifica per multiscafi (da Los Angeles a Honolulu).
I ritiri alla Ostar e al Golden Globe
Nel giugno del ’68 prende parte alla terza edizione della Singlehanded Transatlantic Race (la OSTAR) sul catamarano di 16 metri San Giorgio, da lui progettato e costruito, partendo con due ore di ritardo rispetto ai 34 avversari. La barca, a causa di difficoltà economiche risolte all’ultimo momento grazie all’intervento de “L’Espresso”, era arrivata a Plymouth non ancora perfettamente messa a punto. Nonostante sia indicato come uno dei favoriti, Alex è costretto al ritiro (a causa dell’urto con una balenottera al largo della Cornovaglia), sorte che condivide con un grande suo “contemporaneo”, Éric Tabarly. Non si perde d’animo, poiché nell’ottobre dello stesso anno è a Cowes, schierato sulla linea di partenza del Sunday Times Golden Globe Race, lo storico giro del mondo in solitario no-stop vinto da Robin Knox-Johnston dopo che Bernard Moitessier aveva abbandonato la gara facendo rotta sulla Polinesia per ritrovare, a detta sua, se stesso: “Nel ’68 ho ceduto il San Giorgio, assieme a un po’ di denaro, al cantiere di Uffa Fox a Cowes e in cambio mi è stato consegnato il Gancia Americano (il 20 metri progettato da Alex con cui ha preso parte al Golden Globe, ndr). Tutta l’attrezzatura di coperta, albero incluso, appartenevano al San Giorgio: ho armato un monoscafo di 20 metri con ciò che avevo recuperato da un catamarano di 16 metri. Alla prima uscita, miracolosamente, tutto era in bolla, la barca era un razzo”. Se la barca è a posto, lo stesso non può dirsi di Alex: “In Inghilterra ero da solo, freneticamente al lavoro sulla barca: ero sfondato di fatica, e come se non bastasse in precedenza ero stato operato di ulcera duodenale. Il limite massimo per la partenza della regata era intorno al 20 ottobre, per cui ho dovuto varcare la linea di partenza e rimanere 10 giorni fuori all’ancora a sistemare le ultime cose a bordo, nel gelo più totale”. Quando finalmente parte il 31 ottobre, assieme allo sfortunato Donald Crowhurst, che poi si suiciderà durante la regata, Carozzo sta male: “Non ero pazzo. Semplicemente, stavo pensando, ce la faccio. I miei amici non condividevano la mia scelta ma sapevano che avrei portato la pellaccia a casa in ogni caso, anche a cavallo di un pagliolo”. L’avventura di Alex si conclude il 14 novembre, quando decide di ritirarsi facendo rotta verso Porto. Il navigatore veneziano è stato il primo italiano a prendere parte alle più grandi regate del secolo (che allora sembravano essere riservate a inglesi e francesi), con imbarcazioni da lui progettate e, spesso, costruite.
Un italiano alla corte dei grandi
In quegli anni, Carozzo era circondato da vere e proprie leggende della vela quali i succitati Chichester, Moitessier, Tabarly, Knox-Johnston e Crowhurst. “Ho tradotto il libro di Chichester, mentre di persona l’ho conosciuto a Sanremo in una serata in cui nessuno parlava inglese (tranne me, che da bambino leggevo le riviste inglesi e con il vocabolario me lo sono imparato da solo) e volevano trascinarlo al Casinò: lui mi venne incontro chiedendomi di salvarlo”. Simpatico anche il siparietto che mi racconta su Donald Crowhurst: “Le uniche volte che l’ho incontrato, è cascato in acqua: a Cowes sono andato a trovarlo che era ormeggiato all’ancora, e nel scendere dalla barca al mezzo di supporto è caduto in mare. Un’altra volta la scena si è ripetuta. O all’epoca era già fuori controllo, oppure ero io a portargli sfiga. Ricordo che mi regalò uno dei primissimi radiogoniometri che produceva la sua ditta”. Ecco invece ciò che Alex pensa della presunta rivalità tra Bernard Moitessier e Robin Knox-Johnston (Moitessier sostenne che si era ritirato in Polinesia per ritrovare se stesso, mentre Knox-Johnston, dicono alcuni, dichiarò che in realtà lo aveva fatto perché aveva capito che sarebbe arrivato dietro di lui): “Sono stronzate da giornalisti di poco conto. Bisogna levarsi il cappello dinanzi a entrambi, così diversi tra loro eppure ambedue grandi: Moitessier era l’essenza del romanticismo e possedeva il dono della scrittura, Knox-Johnston proveniva, come me, dalla Marina Mercantile: era quindi l’incarnazione di un certo pragmatismo di stile britannico”. Carozzo è meno entusiasta dell’altro italiano che all’epoca faceva parlava di sé, Ambrogio Fogar: “No comment, preferisco non toccarlo. Mi son fatto del sangue marcio ai miei tempi, preferirei evitare di ripeterlo ancora. Diciamo soltanto che ai cosiddetti ‘personaggi’ non sono mai stato vicino”.
Il lupo (di mare) perde il pelo ma non il vizio
Nel 1989 Alex si toglie anche la soddisfazione di entrare nel mondo del cinema: non come attore, ma come “armatore”. Una sua barca viene infatti utilizzata nelle scene di mare del film “Nostos – Il Ritorno” di Franco Piavoli, rivisitazione del mito di Ulisse che riscosse pareri positivi dalla critica dell’epoca. Le scene di navigazione sono state girate in realtà sul lago di Garda, dove Carozzo, residente a Padenghe, vive da oltre 40 anni. Alex non si stanca mai: nel 1990 ripercorre la rotta di Cristoforo Colombo da Gran Canaria a San Salvador: 3.800 miglia in quaranta giorni, sette più del navigatore genovese, a bordo di Zentime, una scialuppa in vetroresina lunga 6 metri da lui recuperata in un cantiere di demolizione a Las Palmas e messa a regime in tre mesi di lavoro. L’armo è più che essenziale: il sartiame è cavo abbandonato da una gru, il bompresso un tavolone di recupero, la tuga una cassa di legno di un metro cubo. Randa e fiocchi sono in cotone, cuciti a mano con l’aiuto di un materassaio. Non c’è motore, non c’è radio a bordo, per non parlare di strumentazione elettronica; anche le vivande sono razionate. Una forma di navigazione primitiva, un ritorno alle origini per Alex, che nel frattempo (lo indica anche il nome della barca, Zentime, letteralmente “il tempo della semplicità”) è diventato buddhista. A bordo porta sempre con sé una statua, che lui chiama “Il Maestro”, sua fonte di ispirazione in navigazione. L’avventura è narrata nel suo libro, Zentime Atlantico, edito da Nutrimenti. Nel ’93, a bordo di un “topo”, una piccola imbarcazione tradizionale dell’area adriatica, compie nuovamente la traversata atlantica.
La burrasca e il sogno della madre
Non posso non chiedere ad Alex, che in mare ne ha vissute di cotte e di crude, se si sia mai trovato in una situazione in cui ha rischiato di lasciarci la pelle: “Era l’ottobre del ’65 ed ero nel bel mezzo del Pacifico, quando venni investito da una depressione anomala, con il barometro che era andato improvvisamente giù. Stava arrivando una burrasca senza precedenti, con tanto di frangenti giganti. Preparai la barca al peggio, ammainando le vele e piazzando l’ancora di poppa. ‘Ci siamo’, mormorai tra me e me. Ero spaventato, ma poi mi sono tranquillizzato: ho pensato che alla fine, tutto ciò che avrei potuto fare per salvarmi l’avevo fatto. Se al posto mio ci fosse stato un Tabarly o un Moitessier sarebbe stato uguale. Mi faceva rabbia pensare a come avrebbero reagito i miei amici alla notizia della mia morte: ‘Guarda un po’ l’Alex, ha fatto il cretino ed è andato giù come una pera’. È l’orgoglio del marinaio: sentirsi vittima di un giudizio iniquo. Fortunatamente la tempesta passò, la barca resistette alle onde e io la passai liscia. Quando tornai a casa, mia madre e mia sorella mi raccontarono che il 16 ottobre entrambi avevano fatto un incubo. Mia madre mi aveva sognato vestito con una palandrana nera e bisognoso di aiuto, mia sorella mi immaginò alla base di una grande montagna di sabbia mentre cercavo di raggiungerla in vetta. Il 16 ottobre era esattamente la sera in cui venni investito dalla burrasca”. E adesso, caro Alex, non ci resta che attendere la tua prossima “carozzata”.
Eugenio Ruocco
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