2009: Una vita alla deriva – Il mito di Moitessier 40 anni dopo

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Una vita alla deriva – Il mito di Moitessier 40 anni dopo

Tratto dal Giornale della Vela del 2009, Anno 35, n. 07, agosto, pag  62-71.

L’avventurosa e controversa storia dell’uomo che ha fatto sognare generazioni di appassionati. Tra polemiche, sogni, follie, tempeste, vittorie e fallimenti. Con un unico vero amore, il mare.


Bernard Moitessier 40 anni fa abbandona il Giro del Mondo per rifugiarsi in Polinesia. Nasce così il mito del navigatore filosofo.

Bernard Moitessier è un’Icona, ma non ancora Santo. Dunque, si può affrontare subito, in queste prime righe, la vexata quaestio: al Golden Globe, lanciando, nel 1969, con la sua inseparabile fionda sul ponte della piccola petroliera British Argosy – nella baia di Capetown – il messaggio «Continuo senza scalo verso le isole del Pacifico perché sono felice in mare, e forse anche per salvare la mia anima», è stato un vincitore o un perdente? Per alcuni, lui che era alla testa del primo giro del mondo in solitario non stop della storia, si è arreso: non è riuscito a portare avanti la gara, fino in fondo, come ha fatto Robin Knox Johnston. Per altri, invece, la sua decisione di voltare le spalle a tutto e a tutti è stata un’estrema scelta di libertà: nel suo convincimento, «sarebbe una stronzata tornare in Europa…», vi leggono una vittoria. Io, in verità, non so. Così, ho provato a capire. Ho risfogliato le pagine del suo primo libro, «Un vagabondo dei mari del Sud»; del secondo, «Capo Horn alla vela»; ho sottolineato i passi più pregnanti de «La lunga rotta» e del suo ultimo «Tamata e l’alleanza» (e il postumo «Vela, mari lontani, isole e lagune»). Finché, mi sono imbattuto nel testo (“Moitessier, la lunga scia di un uomo libero”, Nutrimenti, 2006) di un giornalista francese, Jean-Michel Barrault, che dell’Icona è stato amico. E ho cominciato a navigare con nuove coordinate. Barrault dice che per comprendere davvero la decisione di Moitessier occorre risalire alla sua infanzia. E scorrere la sua vita. Facciamolo.

Le prime esperienze di navigazione

Bernard nasce nel 1925 in Vietnam, all’epoca Indocina. Vive a Hanoi, poi a Saigon. Il padre è un diplomato dell’Haute Ecole de Commerce, imprenditore di successo nell’import export; la madre, colta e con un temperamento d’artista. Ci sono altri due figli più piccoli, Françou e Jacky. I tre bambini sono scatenati, appassionati di nuoto, meno della scuola e con uno spiccato spirito di avventura, che s’alimenta durante le vacanze di famiglia in un piccolo villaggio nel Golfo del Siam. Qui, Bernard trova i primi amici e il suo primo pigmalione, un pescatore che gli insegna a navigare senza l’ausilio di bussole e altri strumenti, perché «con le stelle o la direzione del vento e delle onde vedi sempre dove vai, e le tue orecchie restano aperte ad ascoltare ciò che ti dice il mare». In questo villaggio Bernard tornerà quando sarà più grande e avrà già voltato le spalle all’azienda paterna. Compra e arma una giunca (Snark) con un socio, stringe amicizia con un avventuriero francese che diventa sua guida spirituale. E comincia a vivere come sente di volere. Ma non c’è il lieto fine: la Francia perde la guerra, l’Indocina è invasa dai giapponesi; viene Hiroshima, il Viet Minh comunista. Bernard abbandona la giunca alle sue falle e si arruola nel Gruppo volontario della liberazione, come marinaio-interprete. Ma una tragedia spazza via i suoi sogni: i fratelli, a capo di una compagnia di tiratori cambogiani, uccidono uno dei loro amici d’infanzia; Françou si suicida e Jacky fugge in Guiana, tormentato dal rimorso.

In fuga dai suoi incubi

Quando Bernard, poco più avanti, decide di lasciare l’Indocina, è scampato alla morte più volte, ha abbandonato il primo amore, ha visto il padre spezzarsi, gli amici cadere. Fugge dai suoi incubi con una nuova barca, che gli fa scoprire, o riscoprire il mare. E la sua rotta. Ma non va lontano: la giunca che ha chiamato come la prima fidanzata, Marie-Thérése, salpa da Singapore e s’arena per un errore di carteggio sulle isole Chagos, in mezzo all’Indiano. Bernard non si perde d’animo, sale su una corvetta inglese, approda alle Mauritius. E da qui, dopo aver fatto mille lavori, riparte. Fallirà ancora: la nuova barca, il Marie-Thérése II, con la quale fa tappa a Capetown e risale l’Atlantico sino alle Antille, va a fracassarsi – un colpo di sonno, mentre cerca di raggiungere le Trinidad e un nuovo amore – sulla barriera corallina dell’atollo Diego Garcia. Per l’Icona, è un brutto colpo. Che gli risveglia il dolore delle ferite dell’Indocina: cade in depressione, s’imbarca su un cargo e torna in Francia. In Patria Bernard si trasforma in uno pseudo-travet. Fa il rappresentante di medicinali, poi il piazzista di lattine di encausto, si sposa con Françoise, che gli porta in dote tre figli. E incontra Barrault, che lo spinge a scrivere. Nel 1960 esce «Un vagabondo dei mari del Sud»: ha successo e l’autore ricomincia a sognare una nuova barca. Arriverà: è un ketch in acciaio di 12 metri, due pali del telefono come alberi e un nome, Joshua, che è quello di Slocum. Si mette a fare scuola di vela, per tirare su soldi, cercando di far sentire ai suoi allievi il mare senza strumenti (i suoi consigli: due libri, “Corso di navigazione di Glenans” e “Mettre les voiles” di Antoine; per la pratica, cominciare dall’Optimist, la «strada regale per arrivare alla barca da crociera»). Il viaggio di nozze è il giro del mondo. Con una promessa a Françoise: tornare, per non restare troppo a lungo lontano dai bambini. Per l’Icona, è un laccio: all’anima, e alla sua barca, che gli sussurra «dammi il vento e ti darà le miglia». Vale anche un’impresa, la promessa: per fare prima, i due passano l’Horn e coprono lungo la rotta logica la traversata Tahiti-Alicante. Sono 14mila miglia, senza scalo.

Foto pag 65
Moitessier in un momento di bonaccia nell’oceano Pacifico cuce una vela, durante il Giro del Mondo in Solitario del 1968/69. Nei 343 giorni di navigazione si trasformò, perse e riprese peso a seconda dello stato d’animo, si irrobustì e non si tagliò mai né capelli, né barba.

Un uomo diverso

Bernard torna a casa, si rituffa nella vita di tutti i giorni. Ma è un uomo diverso. O meglio, è un uomo che ha scoperto che cosa ha nel cuore. «Sento una voglia terribile di ritornare a vivere sull’acqua» scrive. L’editore Jacques Arthaud gli commissiona “Capo Horn alla vela”, con una scadenza ravvicinata. Bernard ha bisogno di soldi e rincorre le pagine dei suoi ricordi. Gli ultimi tre capitoli, confezionati in fretta, sono una resa. «Nelle vetrine delle librerie, quel libro era come un dito puntato sulla mia anima, che diceva: “Traditore”». È venuto meno all’«alleanza» con sé stesso e con l’universo, e se ne vergogna. Cade in depressione, pensa al suicidio. C’è una sola medicina. Tornare in mare, nel Pacifico. «Acqua, acqua, acqua», come gli ha predetto una fattucchiera. Capisce che cosa deve fare: il giro del mondo senza scalo, in solitario, passando per i tre Capi. E scrivere un altro libro, sugli oceani (fissando con l’editore una rendita per Françoise e la sostituzione di quei tre capitoli maledetti del precedente). Così, Bernard rinasce. È il 1968. Il Sunday Times lancia il Golden Globe e vuole Moitessier. L’Icona non ci sta. «Lo spirito di competizione rischierebbe di far perdere di vista l’essenziale: la corsa ai limiti di sé stessi, la ricerca di una verità profonda, con il Mare, il Vento, la Barca, l’Infinitamente Grande e l’Infinitamente Piccolo come testimoni». Ma c’è bisogno di soldi, le 5.000 sterline in palio servirebbero a ripianare i debiti. Bernard capitola. Ma con un proposito: vinco, ritiro i soldi senza ringraziare, svendo il Globe all’asta. Siamo arrivati, così, alla lunga rotta. In mare l’Icona ritrova la sua anima, mette a tacere i suoi tormenti (il Dragone), incontra la pace. «Non torneranno mai a Plymouth», gli legge nel cuore Françoise alla partenza di Plymouth.

Acqua, acqua, acqua

«Avevo un tale bisogno di ritrovare il soffio al largo, al mondo non c’eravamo che Joshua e io, il resto non esisteva, non era mai esistito» scriverà Bernard. «Acqua, acqua, acqua»: lungo i paralleli e i meridiani l’Icona sarà felice. «Voglio dimenticare completamente la Terra, le sue crudeli città, le sue folle senza sguardo e la sua sete di un ritmo d’esistenza privo di senso». Il 20 marzo 1969, nella baia di Città del Capo, la svolta. «Piuttosto che tornare in Inghilterra, preferisco continuare, senza scalo, verso le Isole del Pacifico». Non entra nella storia, quella della competizione; ma apre le porte del suo universo, quello che si è scelto. Un altro mezzo giro del mondo, senza scalo, Tahiti, la Polinesia. «Non si trattava di arrivare alla fine di un viaggio, ma di giungere alla fine di me stesso. In mare ero felice, perché avevo trovato la pace del mio spirito, una pace totale, profonda, troppo preziosa per dover rischiare di perderla fermandomi prima del tempo giusto». Da qui in poi, Bernard vive. Isole e atolli magici, nuovi amori, un figlio, pellegrinaggi dell’anima, Joshua che riprende il mare, la nuova barca Tamata. I libri e le utopie, come quella di lasciare i diritti de «La Lunga Rotta» al Papa, «fiammella di spiritualità che ancora resta nei popoli dell’Occidente», ma anche per non rinnegare quanto fatto: «Accettarli, sarebbe equivalso a cancellare implicitamente tutta la scia da Plymouth in poi» (il Vaticano alla fine li ignorerà, e Bernard ritirerà il proposito). La battaglia ecologista, anti-nucleare; i soldi per i sindaci francesi che pianteranno un albero da frutta. Anche l’America, col definitivo naufragio della barca-mito (che sarà poi acquistata dal Museo navale di La Rochelle) con a bordo l’attore Klaus Kinski, che portava male. Infine, la lotta contro la bestia. Se Bernard era riuscito a sconfiggere il Dragone, non ce la fa contro il cancro. Rifiuta di farsi operare, accetta la sconfitta. Muore a Parigi, quattro anni dopo aver visto il fratello Jacky piegarsi allo stesso male. È il 1994, Bernard ha 69 anni. I tre fratelli ritornano insieme sulle piroghe dei pescatori del Golfo di Siam, dove sono stati felici. L’Icona diventa Mito.

P.s.: Vincitore o perdente al Golden Globe? Simone Bianchetti, il navigatore, diceva che Moitessier si era arreso. Pace all’anima di entrambi. ­

Di Fabio Pozzo


 

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5 commenti su “2009: Una vita alla deriva – Il mito di Moitessier 40 anni dopo”

  1. Raniero Sandrelli

    Mi sembra che gli unici ad essere veramente sconfitti siano coloro che hanno un disperato bisogno di dare un’etichetta più che un senso,coloro che debbono decidere se Moitissier è vincente o sconfitto .
    La sensazione che io ebbi quando venne a Roma, fu semplicemente quella di un uomo che cercava di vivere . Non voleva guerre,vincitori e soprattutto sconfitti.
    A volte si potrebbe smettere di cercare sentenze e soffermarsi soltanto ad osservare,come si fa con un tramonto o con un’alta.

  2. Era il mito di mio padre anche lui sopraffatto dal maledetto male qualche anno dopo…uomini che avevano dentro un’infinita forza e anche una grande fragilità a volte nascosta ma che sentivano la vita con le sue emozioni e la sua spiritualità. Coraggio che adesso in un mondo di ansia e paure è difficilie trovare. Semplicemente poeti della vita e del mare che porta sempre nuovi sogni.

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