1975. I pirati attaccano il Guia di Falck a Panama. Un thriller da leggere in un fiato
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I pirati attaccano il Guia di Falck a Panama. Un thriller da leggere in un fiato
Tratto dal Giornale della Vela del 1975, Anno 1 n.1, luglio, pag. 12/15.
Luciano Ladavas e la sua compagna Leo sono assaltati da pirati ungheresi mentre attraversano il Canale di Panama. Arriva l’esercito panamense, come finirà?
Leo Rova, la compagna di avventura di Luciano Ladavas, ha inviato in esclusiva a «Il Giornale della Vela» il racconto del sequestro del «vecchio» Guia nelle acque di Panama. È questo l’unico documento di prima mano fra le tante inesattezze pubblicate dai giornali italiani e stranieri
Balboa, giugno. Oggi festeggio i miei otto giorni di esistenza, e cioè è una settimana che io e Luciano abbiamo la sensazione che ogni giorno è un anniversario da festeggiare. Senza voler evocare il Grand-Guignol, la sporca signora in nero con le sue grandi ali di pipistrello e la sua falce a bandoliera, ci ha reso una visita interminabile e solo per poco non ci si è attaccata addosso. Io credo che saprete della nostra avventura, perché abbiamo parlato al telefono con Giorgio Falck, a cui Luciano ha descritto gli avvenimenti e deve essere apparso qualche articolo sui giornali. Una nuova era di pirateria verso barche da diporto è cominciata. La polizia americana della zona del canale di Panama ci ha confermato questa nuova criminalità. Ecco la cronaca. La mia cronaca.
L’arrivo a Cristobal
Arriviamo a Cristobal, porto della parte atlantica della zona USA del Canale di Panama il 14 maggio e qui decidiamo che passeremo il canale di Panama venerdì 16 maggio. Lo Yacht Club di Cristobal ci ospiterà durante questi due giorni, come si usa fare con le piccole imbarcazioni da diporto che attraversano il canale. Le autorità competenti ci danno spiegazioni sulla traversata, che comporta il passaggio di diverse chiuse: un pilota ufficiale ci deve accompagnare durante tutta la traversata, ma abbiamo ugualmente bisogno di tre «linesmen», cioè tre persone, oltre a noi due, per poter essere due a dritta, due a sinistra, più uno al timone, al momento del passaggio delle chiuse, quando quattro grosse cime vengono tese tra il battello e i due bordi della chiusa. Secondo l’uso, l’equipaggio supplementare si sceglie tra gli altri velieri che attraversano il canale. Arrivando a Balboa, sulla costa del Pacifico, si prende la ferrovia per ritornare a Cristobal. È così che, con due battelli che attraversano a giorni alterni, si può riunire l’equipaggio necessario. Per noi è però diverso.
Non c’è alcun equipaggio di yacht disponibile. Alcuni giovani si presentano amichevolmente per aiutarci: un giorno due colombiani marinai di cargo in quel momento senza contratto di imbarco; un altro giorno si presenta un ungherese che parla un po’ di francese. Dice di essere proprietario di un Dufour 34 che è in carenaggio a Cartagena, sulla costa atlantica colombiana; lavora da qualche mese a Cristobal facendo lavoretti allo Yacht Club per pagare le riparazioni del suo battello in Colombia, poiché il lavoro è molto raro in quel paese e soprattutto molto mal pagato. Tutte queste spiegazioni sono plausibili, poiché effettivamente alcune persone ci dicono di averlo visto a Cristobal in novembre da solo, con un Dufour. La traversata del canale va bene. Lasciamo lo Yacht Club di Cristobal venerdì pomeriggio per arrivare allo Yacht Club di Balboa sabato mattina, dove il nostro equipaggio cosmopolita sbarca, dopo essere stato ringraziato e dopo aver ricevuto un po’ di denaro per pagarsi un pasto e il ritorno in treno a Cristobal.
Una zona apparentemente tranquilla
Sabato e domenica pranziamo con un amico italiano che abita nella città di Panama da qualche mese. Ci vanta la regione come la più tranquilla e sicura in confronto alla vicina Colombia, dove succedono un sacco di cose come rapine e altri crimini quotidiani. I fatti che seguiranno dovranno smentire questi commenti decisamente ingenui; le conversazioni che noi abbiamo avuto in seguito con le polizie locali, la panamense e quella americana della Canal Zone, confermano ugualmente che il paese non ha nulla di pacifico poiché atti di violenza e di criminalità succedono quotidianamente.
L’attacco dei pirati sul Guia
Ecco, adesso, arrivo ai fatti, ma per raccontarvi quello che seguirà era indispensabile qualche spiegazione preliminare che chiarisse la situazione. Durante la notte tra domenica 18 a lunedì 19 siamo ancorati allo Yacht Club di Balboa e stiamo dormendo; una mano si posa sulla mia bocca, sento il freddo di una lama di coltello sulla mia gola, una pila è puntata sui miei occhi. Mi lascio sfuggire, dopo aver tentato di liberare la bocca, un urlo degno della Callas nei suoi giorni di gloria. Luciano si sveglia ed è subito immobilizzato. Riconosciamo uno dei due colombiani e l’ungherese che ci avevano accompagnato nella traversata del canale. Il colombiano ha un coltello appuntito e l’ungherese una pistola che punta fermamente su noi due. Siamo nella cabina di poppa, che ha due cuccette. Mi fanno raggiungere il letto di Luciano, ci legano mani e piedi, uno dei banditi strappa una delle mie magliette, ne caccia metà nella bocca di Luciano e metà nella mia. E, nella migliore tradizione dei romanzi polizieschi, ci chiudono la bocca con del nastro adesivo alto almeno cinque o sei centimetri. Come ulteriore precauzione, ci legano schiena a schiena.
Questo senza spiegazioni. Li sentiamo sul ponte togliere la tenda che protegge la barca dal sole. Tutto questo alla luce della pila, perché è una notte senza luna. Un rumore di motore si avvicina e i due malviventi rientrano. L’ungherese ci chiede di star tranquilli. Precauzione inutile, perché siamo legati come mummie. Vi spiego: allo Yacht Club di Balboa il trasporto tra le barche all’ancora e il club è assicurato da una flottiglia di canotti a motore, perché, a causa di una forte marea, non c’è che un pontone galleggiante. E’ un servizio che funziona molto bene: quando si desidera raggiungere la terra, si fischia o si grida e il canotto-taxi arriva. Questo è il motore che si sente avvicinare. L’uomo del canotto ha scambiato probabilmente il mio urlo per un richiamo, ma, vedendo il battello silenzioso e senza luce, dopo qualche minuto se ne va. Il motore del Guia viene messo in moto. L’ungherese durante la traversata del canale ha avuto tutto il tempo di informarsi sulla messa in moto e sulla quantità di carburante che c’è a bordo.
Dopo un’ora di navigazione, verso le cinque e trenta, viene giorno. I due banditi si danno il cambio al timone, pistola alla mano, senza perderci di vista. Ci tolgono il nastro adesivo e gli stracci dalla bocca. Nella mattina, verso le undici, l’ungherese mi libera e scioglie anche le corde ai piedi di Luciano. Mi chiede di preparare qualche cosa da mangiare per noi due, rifiuto, perché, come potete immaginare, il nostro stomaco è piuttosto contratto. Essendo adesso in grado parlare chiediamo quali siano le loro intenzioni. Durante tutta l’avventura parliamo solo all’ungherese, che sembra il cervello della banda. Ci risponde che il loro scopo è di raggiungere un posto solitario. Niente altro.
Mentre eravamo ancora legati, l’ungherese aveva frugato il Guia e quindi trovato la nostra carabina che la dogana del Canale aveva sigillato, perché l’arma doveva restare inutilizzabile durante il passaggio delle acque territoriali americane.
Non sappiamo quali siano le loro vere intenzioni. Coperti dal rumore del motore, in italiano, lingua che i due ignorano, Luciano e io ci scambiamo qualche supposizione: che traffichino con la droga, che vogliano raggiungere clandestinamente la costa colombiana. Pensiamo che siano avventurieri di piccolo taglio, ma assolutamente non assassini. Ripeto che l’ungherese dopo aver slegato me e i piedi di Luciano, ci aveva concesso una certa libertà: a me di muovermi tra il bagno e la cucina; a Luciano, ancora con le mani legate, di andare soltanto al bagno (le mani erano leggermente libere, in modo da permettergli di far pipì autonomamente).
Io godo quindi di una relativa libertà per andare e venire dalla cabina posteriore, il bagno e la cucina, col pretesto di cercare un bicchier d’acqua, fare pipi eccetera. Ogni passaggio ci permette di guardare nella cabina di pilotaggio. Abbiamo il tempo di vedere una sacca da viaggio sgocciolante acqua (in seguito venimmo a sapere che i due avevano raggiunto il battello a nuoto con i giubbotti di salvataggio e una piccola zattera di fortuna, su cui era appoggiata la sacca in questione, e che la pistola era stata trasportata in un sacchetto fissato sulla testa dell’ungherese). Dal sacco sgocciolante acqua estraggono qualcosa che ci sembra una panoplia per fare carte false: cioè punzoni, timbri, tamponi, penne e matite differenti, che vengono messe ad asciugare in coperta.
Saranno pericolosi?
La nostra opinione sulle pericolosità di questi individui si rinforza, ma non tentiamo nulla, perché i banditi si sforzano di creare un clima di confidenza, di fiducia: l’ungherese ci dice che vogliono semplicemente sbarcare in un luogo tranquillo e andarsene. Non tentiamo nulla per risolvere la situazione, perché anche un sospetto da parte loro può spingerli a una reazione tragica. L’ungherese infatti non lascia mai la pistola e per convincerci che è ben carica a un certo punto spara due colpi in aria.
Non abbiamo alcuna idea della direzione presa dalla barca, ma Luciano ed io, attraverso gli oblò, in base alla posizione del sole, pensiamo siano circa le tredici. Luciano, a questo punto, pensa di scrivere qualche annotazione. Mi chiede di andare a cercare una matita, vado a prenderla in cucina e mi accorgo che i nostri coltelli da cucina sono scomparsi. Luciano scrive nascostamente sull’«Arcipelago Gulag», che finge di leggere. Supponiamo di essere nell’arcipelago di Las Perlas, un gruppo di isole a una cinquantina di miglia a sud-est di Panama.
Sono circa le quattordici, il Guia rallenta, evidentemente i due sono alla ricerca di un ancoraggio discreto. Ci diciamo «Merde! Non sono loro che vogliono sbarcare, ma noi». Infatti voler sbarcare in un’isola apparentemente senza mezzi di comunicazione per raggiungere il continente è assurdo.
La nostra paura aumenta di minuto in minuto, ma il sangue freddo e soprattutto la speranza non ci abbandonano mai.
Il battello si ferma e viene ancorato in una baia di fronte alla spiaggia.
La nostra speranza aumenta
Usciamo sul ponte, preghiamo l’ungherese di dirci le sue intenzioni: «Ho bisogno dello Zodiac gonfiabile perché il colombiano ed io raggiungeremo la spiaggia e lasceremo l’isola con un mezzo che io conosco». Gli diciamo diverse volte che siamo disposti ad accompagnarli ovunque desiderino e che il denaro che è a bordo è a loro disposizione. I loro guai con la polizia non ci interessano (ed è vero), desideriamo aiutarli purché non ci sia alcuna vittima né alcun danno al battello.
Ci sembrano fiduciosi, la nostra speranza aumenta. L’ungherese ci dice che non ci vuol fare alcun male, vogliono solamente sbarcare clandestinamente.
Allora Luciano chiede anche che si possa recuperare lo Zodiac perché l’aveva acquistato a Fort-de-France e c’era costato un’occhio della testa.
L’ungherese è d’accordo, sembra che capisca i nostri problemi. Raduna le sue cose nella sacca; manovra che in seguito si rivelerà una parodia di partenza per metterci tranquilli, poiché i due non hanno mai avuto l’intenzione di abbandonare il Guia.
In ogni modo noi stiamo all’erta: sino a quel momento non è stato fatto alcun atto di sabotaggio per immobilizzare per un certo tempo la barca, come vuotare le riserve di carburante, tagliare le drizze o scaricare le batterie eccetera. Allora, con un po’ di speranza, Luciano propone di andare a terra con i due; essendo lui legato, uno avrebbe remato, l’altro l’avrebbe tenuto d’occhio con la pistola e io sarei stata rilegata e reimbavagliata. Ecco un programma che non offre loro alcun rischio. L’ungherese rifiuta, e decide di andare a terra solo con Luciano, di tornare a prendere il suo complice, di raggiungere nuovo spiaggia, di liberare Luciano che sarebbe ritornato solo con il canotto. Strano. Ma noi non abbiamo scelta e in più siamo impazienti di finirla.
Lo Zodiac è alla fine gonfiato, tutto è pronto per lo sbarco. L’ungherese, molto lento nei suoi gesti e apparentemente anche nelle decisioni, sembra voler guadagnar tempo.
Aumenta la tensione sul Guia
La tensione aumenta e Luciano gli propone di avvicinare il Guia alla spiaggia. Sono d’accordo. Il motore è rimesso in moto. Luciano li deve addirittura aiutare a levare l’ancora, perché ci sembra che non siano molto abili nelle manovre. Si ributta l’ancora più vicino.
Luciano riceve l’ordine di ridiscendere nella cabina. Attraverso un piccolo specchio da tasca, Luciano riesce a vedere l’ungherese mentre spiega al colombiano di voler uccidere Luciano sulla spiaggia vicina (che si chiama Punta Matalero, che vuol dire Punta del Mattatoio. Divertente vero?), e di uccidere me su un altro isolotto.
L’ungherese conosce soltanto poche parole di spagnolo e comunica col suo complice soprattutto a gesti. Dunque, Luciano vede l’ungherese, la pistola puntata alla sua tempia mentre indica la cabina dove siamo, poi il suo dito puntato nella direzione della spiaggia.
“Ci ucciderà tutti e due!”
Gesti estremamente espliciti. Luciano non mi dice nulla per paura di una reazione disperata da parte mia, ma esce sul ponte col pretesto di fare pipì fuori bordo. L’ungherese nel frattempo sta scrutando il paesaggio per assicurarsi che sia completamente deserto. In quel momento il complice colombiano mima a Luciano il gesto di impadronirsi del revolver dell’ungherese e nello stesso tempo di piantargli un coltello nella schiena, poiché l’ungherese ha deciso di ucciderci, ma lui non è assolutamente d’accordo.
Luciano, sempre con le mani legate, mi chiede di prendere un martello e qualcosa di tagliente per liberarlo, perché, mi dice «l’ungherese ci ucciderà tutti e due».
Vado, di nascosto dall’ungherese, in cucina, trovo un piccolo coltello che mi infilo nella tasca dei jeans, prendo un solido martello nell’armadio degli utensili; è in quel momento che sento un rumore di lotta sul ponte. Corro a vedere e trovo il colombiano avvinghiato all’ungherese nel tentativo di disarmarlo e di spingerlo in acqua. Dò una martellata sulla testa del l’ungherese, ma riesco soltanto a ferirlo senza tramortirlo. L’ungherese si aggrappa alle sartie e il colombiano vola fuori bordo, dopo essere però riuscito a prendere la pistola.
Un colpo parte dalla Browning: era destinato all’ungherese, ma va a vuoto. Lotto come un animale e resto sempre in possesso del martello. Il colombiano nell’acqua, con il suo piccolo cervello da gallina, non pensa che la rivoltella è inutilizzabile ormai, tenta di darmela, ma l’arma cade nell’acqua.
È una scena molto rapida. Mi sbarazzo dell’ungherese che si impadronisce di una manovella, dò il martello a Luciano che, sempre con le mani semilegate, tiene a distanza l’ungherese brandendo il martello, saltando con l’elasticità di una molla e lanciando grida altissime per aver l’aria più spaventevole possibile.
Mi impadronisco di una manovella e la dò al colombiano che nel frattempo è risalito a bordo. Discendo, trovo miracolosamente il caricatore della carabina, la carico e mi apposto a prua; sono con la punta del naso e la carabina a livello del ponte e controllo la situazione. Lottando con l’ungherese, Luciano riesce finalmente a spingerlo contro l’albero. Il colombiano è completamente allucinato (la manovella stretta in pugno e le braccia tese) e non ci è di alcun aiuto. Non mi fido comunque ancora delle sue reazioni e lo tengo sotto il controllo della mia carabina.
Preciso che non avevamo assolutamente intenzione di uccidere nessuno… oltre poi all’idea di dover trasportare un cadavere sanguinante. Per la verità dopo tutte queste ore di angoscia quello che noi avremmo voluto sarebbe stato soltanto di veder scomparire l’ungherese senza ammazzarlo o senza spaccargli la testa con il martello. Forse, se ci fossimo impadroniti della rivoltella durante la lotta, l’avremmo ucciso, ma così, ormai quasi a freddo…
Dunque, naso e carabina a livello del ponte come Calamity Jane, tengo sotto mira l’ungherese che esita ancora ad andarsene. Dice a Luciano: «Voglio recuperare delle fotografie che sono nella cucina». Luciano le prende e gliele getta. Sono delle foto per documenti di identità.
L’ungherese, però, tergiversa ancora, tenta di recuperare il suo complice, ma senza successo. Io, terribilmente nervosa, grido al colombiano di staccare lo Zodiac per affrettare la sparizione dell’ungherese. In effetti, l’ungherese getta la sua sacca nel canotto che s’allontana un po’, poi finalmente si tuffa e raggiunge lo Zodiac.
Luciano si gira verso il colombiano e gli domanda se possiamo aiutarlo perché, «merde!» ci ha salvato la vita. Il colombiano ci chiede di portarlo a Balboa. E’ tremante dalla paura. Luciano gli spiega che non è nostra intenzione consegnarlo alla polizia, ma che a quest’ultima a Balboa dovremo dire tutta la verità, in modo che possa arrestare l’ungherese al più presto, Io gli assicuro che gli lasceremo l’opportunità di sbarcare discretamente e di sparire, benché questo ci sembri difficile per lui.
Questo povero diavolo, sudante di paura, mi chiede un whisky per tirarsi su. Sono ancora talmente eccitata che tengo la carabina a portata di mano (lui non l’ha mai vista); mi affretto a preparargli un piccolo cocktail rum-succo d’ananas e dose di sonnifero consistente. Vogliamo un ritorno «relax».
Luciano, intanto, tenta di ritrovare la strada del ritorno, non abbiamo carte e il luogo è pieno di scogli e di rocce. Ma, grazie ai suoi occhi da gatto e alla sua abilità di marinaio, dopo qualche ora vediamo i fari della costa.
Il lieto fine
Alle cinque del mattino, attracchiamo al pontone galleggiante del Balboa Yacht Club. Un’ora prima avevamo svegliato il colombiano che dormiva come un angioletto. Lo convinciamo a consegnarsi alla polizia e in più gli spieghiamo che, con la nostra testimonianza in suo favore, avrebbe avuto notevoli circostanze attenuanti. Si convince.
I poliziotti panamensi e americani arrivano allo Yacht Club insieme a una nuvola di giornalisti sorti dal nulla. È’ solo vedendo questa folla che ci rendiamo conto della gravità del caso. Il colombiano è arrestato su territorio americano. Il generale in capo dell’armata panamense, eminenza grigia del governo, è avvisato da un giornalista e dà subito l’ordine di far partire un elicottero che sorvolerà l’arcipelago de Las Perlas, territorio panamense. Questa efficienza anormale della polizia è dovuta alla situazione tesa tra il territorio americano della Canal Zone e la Repubblica di Panama.
Ognuno vuol fare meglio dell’altro. Alla fine questo incredibile spiegamento di forze, vedette, elicotteri con tiratori scelti, si rivelerà di un’ efficacia straordinaria e dopo poche ore l’ungherese è catturato. Aveva trovato rifugio su un battello di pescatori locali, aveva detto al capitano che era naufragato da tre giorni. L’equipaggio del battello aveva raccolto l’ungherese, che voleva raggiungere Panama, imbarcarsi clandestinamente su qualche cargo e lasciare il paese. Ma quel cretino aveva lasciato lo Zodiac gonfiato sul ponte della barca e l’elicottero non aveva avuto difficoltà a trovarlo.
La stampa panamense ha dato molto risalto alla cosa, evocando polemicamente le basi militari americane lungo il canale e nello stesso tempo la mancanza di sicurezza per il povero civile che attraversa il canale.
La polizia di Panama a questo punto decide di consegnare l’ungherese agli americani. L’istruttoria comincia immediatamente. I due sono incolpati di rapimento e di rapina a mano armata. Una prima udienza, con giudici e avvocati della difesa (scelti d’ufficio, naturalmente), ha luogo perché la corte desidera ascoltare le nostre testimonianze: l’istruttoria non è terminata (l’ungherese, secondo un’informazione dell’Interpol, avrebbe rubato il Dufour in Francia e forse addirittura ammazzato altre tre persone) e noi non abbiamo intenzione di restare qui sino al termine del processo.
Domani, andiamo con una vedetta della polizia e con i sommozzatori a recuperare la pistola. Poi continueremo il nostro viaggio
Leo Rova
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