Era mio padre: l’omaggio di Tommaso Romanelli al padre Andrea. Ecco com’è nato No More Trouble
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Notte, Oceano Atlantico, 3 aprile 1998, ore 2,40, 380 miglia a ovest di Lizard Point, Cornovaglia. C’è una barca italiana, l’Open 60 Fila, che sta sbriciolando il record di traversata atlantica da ovest verso est ed è a circa 24 ore dal traguardo.
A bordo ci sono Giovanni Soldini, Guido Broggi, Bruno Laurent, Andrea Tarlarini e l’ingegnere e progettista Andrea Romanelli. È la notte che si porterà via con la sua tempesta un progettista geniale e velista sognatore, aprendo una ferita nella storia della vela italiana. Fu un’onda definita “a piramide” a ribaltare Fila e fare a pezzi il suo albero. Andrea Romanelli e Andrea Tarlarini sono di turno in pozzetto, il resto dell’equipaggio è all’interno. Per rientrare a bordo dal portellone di sicurezza di poppa i due uomini devono slegarsi dalle cinture di sicurezza, uscire dal pozzetto con la barca rovesciata e raggiungere la porta di sicurezza. Ma solo Tarlarini ci riuscirà, Andrea Romanelli rimarrà disperso.
No More Trouble, opera prima di Tommaso Romanelli, Tucker Film, è il delicato omaggio di un figlio al padre. E, forse, è un film documentario che in qualche modo vuole lenire quella ferita e aiutare i protagonisti a fare pace con quella notte al largo di Lizard Point. No More Trouble lascia un senso di amaro in bocca difficile da mandare giù, per l’angoscia autentica e il senso di disperazione di alcuni momenti della narrazione. Ma lascia anche l’emozione di ascoltare i pensieri di un uomo che nelle sconfinate distese dell’Oceano aveva realizzato i suoi sogni e trovato se stesso.
Ci sono storie che forse hanno bisogno di tempo per essere raccontate, per il dolore profondo che lasciano in chi resta. Questa è una di quelle, è rimasta ad aspettare per oltre 20 anni. Ad aspettare che arrivasse la persona giusta per raccontarla, Tommaso Romanelli, il figlio di Andrea. Aveva 4 anni all’epoca dell’incidente, ha riscoperto suo padre da adulto, attraverso i video di quell’ultima traversata atlantica. E lo ha voluto raccontare con questo film unico.
Se ne avete occasione guardatelo, vi ricorderete di questa storia e di quella scritta…No More Trouble.
Il ricordo di Tommaso Romanelli
Nel 1979 mio padre Andrea aveva 16 anni quando ha visto per la prima volta American Express in una foto, sulle pagine del Giornale della Vela. Il mini americano #17, il padre di tutti i mini moderni, il primo prototipo a vincere la Mini Transat.
Non ho ricordi di mio padre, quindi posso solo immaginare cosa ne avesse pensato, quando l’ha vista la prima volta. Da quello che mi hanno raccontato, era un tipo impetuoso, un po’ irruento. Gli piaceva la velocità. Probabilmente già da così piccolo riconosceva le belle forme di una barca efficiente, capace di grandi imprese. Quella barca, di legno, più larga delle altre, è la più veloce, un giorno da grande me la comprerò, avrà pensato.
Era il fratello più piccolo di tre e la vela c’era sempre stata. Il padre Guido, un ingegnere, li aveva sempre portati a vela. Prima sulle derive, poi sul suo Alpa S, un 6 metri. Mi immagino quest’uomo entusiasta che un’uscita dopo l’altra cerca di far comprendere il funzionamento di quell’oggetto fatto di legno e resina, metalli e tessuti, che permette, sfruttando la sola forza propulsiva del vento, di muoversi attraverso un tratto di mare. Andrea e suo fratello Marco si erano appassionati. Presto erano diventati indipendenti, capaci di gestire la barca in autonomia, di andare da soli verso il largo e l’ignoto.
Mi piace immaginare quelle giornate in cui Andrea adolescente veleggiava chissà verso dove, cercando di portare la barca al massimo, sognando di diventare grande, di comprarsi finalmente American Express, attraversarci l’oceano. Non c’era solo l’obiettivo di raggiungere una buona competenza tecnica, non c’era solo la voglia di planare sulle onde, di disegnare una bella barca, c’era qualcosa di più in quel suo amore per il mare. C’era una volontà di restare in quel senso di fragilità che si sente quando si è al timone, in silenzio, magari di notte, lontano da tutti, soli con sé stessi, separati da pochi millimetri di scafo dai flussi neri del mare.
Io di questa sua passione, che solo ora riesco un po’ a intravvedere, non ne sapevo praticamente nulla. Sapevo dai racconti di mia mamma che Andrea era stato una velista e un progettista. Sapevo che ci aveva amati tanto, tantissimo, che era morto in mare quando avevo quattro anni ma che sarebbe stato per sempre con noi. Non mi andava di fare domande, né su come avesse iniziato ad andare in barca né su come fosse morto. La vela non è mai stata la mia passione, mia mamma non è una velista e non c’è mai stato nessuno che mi ci abbia avvicinato.
Il ritrovamento
È iniziato tutto con un ritrovamento. In camera mia, nello scaffale più basso della libreria, c’erano una trentina di videocassette di mio padre, che non avevo mai guardato o che non ricordavo di aver mai guardato. Alcune avevano delle etichette scritte a mano, che indicavano i nomi di, presumevo, varie barche o regate: “America’s Cup 1991”, “Mondiale Contender 1993”, “Brooksfield”, “Tencara 1992”. La somiglianza tra quella calligrafia, che immaginavo essere quella di mio padre, e la mia, mi faceva sorridere. È una calligrafia tutta maiuscola, un po’ infantile e vagamente frettolosa. Non stavo cercando nulla, stavo solo facendo ordine, ma quelle scritte mi avevano incuriosito. Erano normali trasmissioni TV dell’America’s Cup. Ho guardato un po’, e nel frattempo ho cercato tra le altre cassette se ci fossero altre etichette più interessanti. C’erano due cassette nere, senza nessuna scritta sulla custodia. Le ho aperte, e sul bordo avevano entrambe una piccola etichetta bianca: “Record Atlantico 1998 1” e “Record Atlantico 1998 2”.
Ricordo un senso di straniamento che è difficile spiegare a parole quando le ho guardate la prima volta. Scorrevano le immagini di un mare grigio, di una barca bianca, di cinque marinai tutti bardati nelle cerate rosse nel mezzo della tempesta. Il mare si fa sempre più grosso, il cielo più scuro, una mano deve pulire l’obiettivo, pieno d’acqua, per continuare a filmare. A un certo punto la macchina fa un lento zoom sul timoniere, lo sguardo fisso dentro la lente, il mare che sale vertiginosamente dietro di lui. È stato lì che l’ho riconosciuto. Aveva il mio stesso sguardo.
Le riprese vanno avanti. Il mare continua a crescere, una grande onda, poi l’immagine va a nero. Mi sembrava tutto surreale. Riavvolgevo il nastro e avevo una stretta in pancia, misto di gioia e spavento, la mente in un vortice di pensieri e domande. Mi rendevo conto che quelle erano le ultime immagini di Andrea, che in realtà non sapevo quasi niente di lui, di quella barca, di quelle altre persone che erano con lui.
Nei quattro anni successivi la mia vita è profondamente cambiata. Ho deciso di andare a incontrare le persone che avevano condiviso la vita e il lavoro con mio padre, con cui non parlavo da 25 anni. Prima suo fratello Marco, poi Giovanni, il capitano di FILA, la barca che Andrea aveva disegnato a 34 anni e su cui era scomparso. Già solo dai loro sguardi riconoscevo qualcosa di molto profondo, un’amore per questo padre che io non avevo quasi conosciuto, uno stupore per la somiglianza fisica che c’è tra me e lui, il dolore enorme che la sua scomparsa aveva lasciato dietro.
Mi hanno raccontato la storia di una passione, di un amore per il mare e per le barche, mi hanno fatto addentrare in quel mondo che non conoscevo e che mio padre aveva abitato. Era un racconto lungo, continuavano a comparire nuovi personaggi e nuove barche. È così che ho conosciuto Andrea Tarlarini, Guido Broggi e Bruno Laurent e la squadra di FILA, i progettisti con cui aveva lavorato, Jean-Marie Finot, Pascal Conq, Guillaume Verdier, il meteorologo Pierre Lasnier. Ognuno di loro era maestro in un ambito specifico della vela oceanica, quindi mi permetteva di ricostruire la storia con sempre maggior dettaglio, da una prospettiva nuova. Anche le parole di mia mamma, che per tutta la vita erano state l’unico reale tramite tra me e Andrea, diventavano ancora più ricche, complesse: si davano dei volti a dei nomi, si materializzavano luoghi e oggetti che prima avevano abitato solo nei suoi racconti, le emozioni così intense che mi aveva descritto iniziavo a viverle anche io. Un conto è parlare di una cosa, un conto è viverla, farne esperienza con gli occhi e con il corpo.
E poi c’erano le barche. FILA c’era ancora, abbandonata in Francia dopo aver fatto 3 giri intorno al mondo. E anche American Express c’era ancora: l’aveva ricomprata mio zio Marco per rimetterla a posto. Nel 1979 l’avevano scoperta sul Giornale della Vela, nel 1993 con mio padre, alla stessa età che ho io oggi, l’avevano comprata e Andrea ci aveva fatto la Mini Transat, ottenendo il miglior risultato di sempre per un italiano, e ora era a Monfalcone, fuori dall’acqua. Quando l’ho vista non riuscivo a crederci, mi sembrava troppo bello per essere vero. Quel guscio di legno e resina, l’inizio di tutta la storia, era lì, e mio zio Marco aspettava solo che tornassi io per dargli una mano a riportarla a navigare.
Era come se il racconto si fosse improvvisamente fatto reale e concreto. La storia di mio padre era diventata la mia storia, quelle persone che erano state solo dei nomi erano diventate persone in carne ed ossa, le barche erano diventati oggetti concreti che sembravano chiedere di essere riportati a navigare. Anche le fotografie, i filmati, le parole stampate, cambiavano, acquisivano via via più significato, raccontavano sempre di più.
Mi si sono aperte mille domande: chi era Andrea? Cosa lo aveva spinto nella sua vita? Com’era da piccolo, e chi era diventato da grande? Con chi aveva condiviso i suoi sogni? Cosa aveva provato per mia madre, e per me? Che barche aveva navigato, costruito, progettato? Di cosa sono fatte quelle barche che componevano il suo mondo?
Un po’ era triste, conoscere quella persona che non avevo potuto conoscere, immaginare la vita che avremmo vissuto insieme, rendersi conto che non sapevo fare nulla con le mie mani per rimettere quelle barche in condizione di navigare. Un po’ invece era bello, e mi dava un senso di pace molto profondo, il vederlo felice, una persona con un obiettivo chiaro e l’ambizione per raggiungerlo, che aveva avuto il coraggio di realizzare il suo sogno, di costruire la barca più veloce del mondo, amando il mare così tanto da arrivare a scomparirci dentro.
Non tutti abbiamo un sogno così chiaro e irrinunciabile. Da piccolo le cose che mi piaceva di più fare erano andare al cinema e leggere. Ero una persona che stava molto dentro la propria testa, non avevo grande interesse per la velocità o la competizione, non avevo grande senso pratico o desiderio di costruire oggetti. Mi piacevano le storie e le immagini, e un po’ timidamente sognavo di fare il regista, di raccontare anche io delle storie. Però non trovavo una storia che avesse senso raccontare, quindi non lo dicevo a nessuno e continuavo a ripetermi che magari un giorno avrei trovato la storia giusta.
Riscoprire la vita di mio padre, ed entrarci dentro, è stato anche trovare me stesso. Per la prima volta sentivo di aver trovato una storia che dovevo a tutti i costi raccontare, come se quelle immagini, cariche di nostalgia, di dolore, di gioia, chiedessero di entrare in un racconto che poteva avere soltanto la forma di un film.
Era come se Andrea mi avesse lasciato una storia che andava raccontata e che potevo raccontare soltanto io. Come se quell’amore che aveva dato un senso alla sua vita fosse lì, sparso tra i ricordi, tra parole scritte e fotografie, pellicole e cassette, dentro a quelle barche che gli erano sopravvissute, in attesa di tornare a vivere, trasformato in qualcosa di nuovo.
di Tommaso Romanelli, a cura di Mauro Giuffrè
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7 commenti su “Era mio padre: l’omaggio di Tommaso Romanelli al padre Andrea. Ecco com’è nato No More Trouble”
Bellissima storia piango tutte le volte che la leggo
Ma dove si può vedere il
Film??
Grazie.
Grazie Tommaso
dove si può vedere o scaricare? Grazie
Vorrei sapere se il film si può vedere su qualche piattaforma tipo Netflix o altro.
Grazie
Grazie Tommaso per il bellissimo lavoro.
Mi hai commosso.
Ho avuto la fortuna di aver conosciuto Andrea ed essere stato in barca, anche se per brevi tratti con lui.
Una persona speciale.
Grazie Tommaso
Si mi sono commosso anche io !
Conoscevo la storia di tuo Padre per aver letto il libro di Soldini nel blu.
Ma leggendo queste tue righe il coinvolgimento e’ totale .
Onore a tuo Padre grande velista, progettista e grande uomo !
P.s. anche a me interesserebbe vedere il docufilm , dove si può trovare?
Vorrei tanto vedere il film…sarei disposta anche a fare dei km se non fosse nella mia zona, come si possono avere informazioni su dove viene proiettato? Ringrazio anticipatamente per una cortese risposta.