Una riflessione dalle banchine della Sydney Hobart 2024

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La partenza della Rolex Sydney Hobart 2024. Foto Martin Baum/Pantaenius

L’edizione 2024 della Rolex Sydney Hobart lascerà un solco profondo nella memoria della comunità velica internazionale e soprattutto in quella dei velisti che vi hanno preso parte. Chi partecipa alle regate offshore, e in particolare a quelle dure come la Hobart, sa bene che la paura più nascosta e quasi impronunciabile è quella di un incidente che possa portare via un compagno di barca o la propria stessa vita. Si tratta di un pensiero recondito che forse tanti non ammettono, ma che si annida nella testa di molti e serve a mantenere alto il livello di attenzione e percezione del pericolo. Come abbiamo scritto la vela a volte, in alcune sue sfide, si avvicina molto all’idea di sport estremo, come l’alta montagna o altre sfide al limite che ci sono nel mondo dello sport.

Lamberto Cesari, uno degli opinionisti de Il Giornale della Vela, era a Sydney alla partenza della regata, per supportare come shore team la preparazione del Mumm 36 Georgia Express (a bordo anche gli italiani Federico e Lorenzo Riches e Alessandro Schioppetto), una delle 104 barche in regata, tra quelle che poi non sono riuscite a completare il percorso. Lamberto ha scritto queste righe, che sono una riflessione su cosa è stato questo 2024 della vela, e su cosa sia stata quest’esperienza al tempo stesso terribile e affascinante della Sydney Hobart.

2024, un anno velico che ricorderemo a lungo

L’equipaggio di Georgia Express

Ricorderemo per lungo tempo questa seconda metà di 2024, quando tutti i calendari della vela si sono allineati, proponendoci tutti gli eventi di alto livello che il nostro sport possa offrire. Prima è stato il turno delle regate tra le boe, con Olimpiadi e Coppa America, poi con l’arrivo dell’autunno e della stagione fredda il pubblico della vela ha iniziato a confrontarsi con l’altura: stiamo accompagnando (come al solito metaforicamente, dagli schermi dei nostri telefoni) la flotta del Vendeé attraverso il grande Sud, dopo una folle discesa dell’atlantico a medie che nemmeno pensavamo possibili fino alla scorsa edizione. Nonostante il livello di performance raggiunto dalla nuova generazione di IMOCA, il fascino e il coinvolgimento di questa regata per il pubblico rimane nell’avventura e nel rapporto con il rischio. Pensare a come questi 40 uomini e donne mettano loro stessi alla prova nei mari più impervi del pianeta in una sfida tra essere umano, natura e tecnologia. Quel rischio che per le persone normali viene percepito come folle, per chi naviga è la somma di preparazione, allenamento e ricerca calcolata del limite, e probabilmente anche di sé stessi. 

Sappiamo che ogni navigazione in mare non è priva di rischi, specialmente in Oceano e soprattutto quando si rincorre un record o una linea di arrivo: fin dove può arrivare la passione e quale sia il prezzo da pagare per questa ricerca ci è stato spiegato con infinita dolcezza da Tommaso Romanelli in “No more trouble”. Ripercorrendo la vita e la passione di suo padre velista ingegnere disperso in mare il 4 aprile 1998 al largo dell’Irlanda sulla coda di una tempesta, quando il figlio, poi regista, aveva quattro anni. Sono state le sue parole sul palco dopo la prima del film a dare un senso a tutto: “Ho capito che per una passione così si può anche morire”. Non dovrebbe mai succedere, ma è successo e questo film ha aiutato lui e noi nell’elaborazione di un evento del genere.

Nove mesi dopo quella notte, dall’altra parte del mondo, si consumava la più grande tragedia della vela moderna: la flotta della Sydney Hobart partita il 26 dicembre 1998 incontrò una spaventosa depressione nello stretto di Bass, sei velisti persero la vita, cinque barche affondarono, sette vennero abbandonate e 55 velisti vennero recuperati da altre barche o elicotteri. Come già successe in passato, questo fu un punto di svolta nei protocolli di sicurezza: una buona parte delle misure che oggi prendiamo viene dalla analisi di quella tragedia. Ciò che lega quelle vicende non sono solo due depressioni fortissime, ma anche due tratti di mare dai bassi fondali che hanno generato onde spaventose.

NO LIMIT rounding Cape Raoul, Sydney Hobart 2024

La Sydney Hobart rimane ancora oggi la grande classica delle regate d’altura, la più dura, temuta e rispettata. Basta leggere il bando di regata, o partecipare allo skipper meeting, per capire che il 1998 è ancora presente nella testa di tutti e la sicurezza l’unico elemento di concentrazione da parte del comitato organizzatore. Le barche partecipanti devono avere compiuto nei sei mesi precedenti una regata da almeno 150 miglia tra quelle selezionate o un passaggio oceanico di 150 miglia pre-approvato dal comitato di regata; almeno metà dell’equipaggio deve aver fatto corsi di sopravvivenza, almeno metà deve aver fatto una regata di categoria 1, almeno due membri devono essere medici o avere certificazioni di primo soccorso; durante la regata il comitato chiama ogni imbarcazione due volte al giorno e bisogna rispondere comunicando posizione e situazione a bordo entro un’ora…e via così.

La Hobart 2024

La tensione sulle banchine nei giorni precedenti alla partenza era palpabile. Chi scaricava materiale dalla barca, chi caricava viveri, chi apportava le ultime riparazioni, chi controllava equipaggiamenti e attrezzatura. Colpisce una attitudine tutta australiana alla cura della barca, più essenziale e meno precisa di quella a cui siamo abituati in Europa, ma non per questo meno efficace. A differenza di 26 anni fa, si sapeva benissimo che le condizioni la prima notte sarebbero state dure, con venti da nord fino a 40 nodi in una folle discesa verso lo stretto di Bass, e mare incrociato che avrebbe reso il rischio di straorze particolarmente elevato. Le barche veloci sarebbero entrate nel Bass con il vento da nord che poi sarebbe diventato ovest con il secondo fronte, mentre per i più piccoli il secondo fronte avrebbe significato un salto di 180° passando da poppa a bolina e creando un’onda da due direzioni opposte: una autentica lavatrice per le barche leggere.

ODIN, First 53 di Matt Hanning. Sydney Hobart 2024

Quella prima notte sciagurata ci sono stati tre gravi incidenti: due terminati tragicamente con la morte di due velisti e un miracolo, con un ragazzo caduto in acqua di notte recuperato dopo 45 minuti grazie al dispositivo di localizzazione personale. Tutti e tre probabilmente – la polizia sta ancora accertando le dinamiche dei due decessi- per la stessa ragione: tanto vento, mare incrociato, una violenta straorza, e una persona posizionata nel posto sbagliato. Nel caso dell’uomo a mare sul Cookson 50 Porco Rosso, sappiamo che era legato e ha dovuto slegarsi per non affogare, ma nel momento in cui è riemerso la barca era già a decine di metri di distanza.

La natura, ancora una volta, ci insegna chi è il più forte e che di lei bisogna avere rispetto. Allo stesso tempo, chi parte per la Sydney Hobart è consapevole dei rischi e se ne assume la responsabilità, e lo skipper ha sempre “il diritto e l’obbligo di decidere se è sicuro proseguire” come hanno più volte ripetuto i responsabili dell’organizzazione “We are not risk adverse, we are risk aware”.

Per quello strano filo del destino, mentre la flotta della Hobart navigava verso sud sfidando gli elementi, poche miglia più a ovest un IMOCA blu con armo di fortuna raggiungeva il porto a Melbourne. Era Pip Hare, che ci ha insegnato come imbarcandosi in una navigazione intorno al mondo sia necessario essere responsabili di sé stessi, sapendosela cavare anche nelle eventualità più complesse.

In questi giorni di bilanci l’insegnamento da trarre è che la scelta di imbarcarsi per una navigazione in alto mare non può prescindere dalla conoscenza e dalla fiducia nel mezzo e nell’equipaggio con il quale si condivide questa esperienza. Inoltre, al giorno d’oggi abbiamo gli strumenti per formarci e informarci, e per quanto siamo consapevoli che prendere il mare comporti dei rischi, piccoli o grandi a seconda della nostra esperienza e della navigazione che stiamo per affrontare, lo spirito di avventura e la sete di conoscenza dell’ignoto (che sia una baia, un’isola, o una regata) continuerà a spingerci a mollare gli ormeggi.

«”O frati,” dissi, “che per cento milia

perigli siete giunti a l’occidente,

a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente

non vogliate negar l’esperïenza,

di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza”.»

di Lamberto Cesari

a cura di Mauro Giuffrè

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