Alpa, un’esperienza fondamentale per la vela Made in Italy
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Nel corso delle nostre esplorazioni nel mondo delle Classic Boat, abbiamo parlato, e non poco, di tanti dei grandi cantieri che hanno dato vita ad alcuni tra i più grandi scafi del secolo scorso. Da Dufour ad Hallberg Rassy, da Baltic ad X-Yachts e da Solaris (Se.Ri.Gi) al Cantiere del Pardo, ne abbiamo raccontato scafi e storie. Eppure, a guardar bene, un’altro sicuramente sfugge all’attenzione, forse perché oggi perduto, forse per abitudine… ALPA, una pietra miliare della nautica italiana (e non). Firmatario di scafi eccezionali, quali il 9.50 e il 12.70, così come di derive che hanno cresciuto intere generazioni, Alpa fu un’esperienza relativamente breve ma fondamentale, uno dei grandi cantieri “illuminati”, il primo, in Italia, ha veder applicato l’uso della vetroresina. Nato nel 1956, questa è la sua storia.
Cantieri ALPA, i precursori
La vetroresina fu un elemento cardine per lo sviluppo della nautica da diporto in forme che si avvicinano a quelle odierne. Legno e alluminio erano il precedente standard, con le successive sperimentazioni nei reami dei materiali esotici (Kevlar, carbonio etc), presentatesi solo dopo la scoperta della “bontà” di questa prima. Uno materiale fondamentale la cui importanza è da ritrovarsi in un singolo concetto: la produzione seriale. L’applicazione, come spesso, nasce in contesto militare, durante il secondo conflitto mondiale e, dalle esperienze cantieristiche di questa fase, è poi piano tradotta e sperimentata in ogni altro settore. I cantieri Alpa saranno tra i primi a coglierne il potenziale, arrivando ad assumere alcuni tra i più importanti architetti del loro tempo per firmare scafi oggi leggendari. Alpa varerà ben 22.000 scafi, offrendo una produzione che, per certi versi, sui piani di efficienza e know-how, sarà paragonabile ai successi di Henry Ford nella rivoluzione automobilistica.
ALPA, le origini
Danilo Cattadori è la figura chiave di questa storia. Forte di una grande passione per la modellistica, nei primi anni 50 trasla questa sua esperienza verso il mondo della costruzione nautica, dando vita ad un singolare cantiere/persona, CD, ovvero, Danilo Cattadori, primo vagito di quello che sarà Alpa. Ma è nel 1956 che avviene la svolta, con la registrazione della ditta individuale Alpa di di Fiesco-Offanengo, acronimo per Azienda Lavorazioni Plastiche Affini.
Siamo in un periodo ancora considerato come di sperimentazione pura dei compositi a base di resina e il cantiere ne diviene subito uno dei precursori. La prima produzione è incentrata sulle deriva, da cui ricava un immediato successo. I suoi Flying Dutchman (progetto di Cattadori, elaborato sugli originali di Uus Van Essen e Conrad Gulcher 1951) risultano subito tra i migliori, vincendo l’Oro Olimpico ai Giochi di Napoli del 1960. La fama diventa subito internazionale, e tali le partecipazioni del cantiere ai Saloni. Cattadori, peraltro, vincerà anche un Compasso d’oro per il suo FD.
Siamo nel 1960 quindi e, a 4 anni dalla sua fondazione, il cantiere ha in produzione alcunii modelli della precedente esperienza di Cattadori ( i cabinati CD sotto i 9 metri) e due classi internazionali, il Flying Dutchman e il Flying Junior. Ma gli anni ‘60 saranno i veri anni della svolta.
Alpa, la svolta di primi anni ‘60
Con la fama raggiunta e il know-how acquisito sul fronte della vetroresina, gli anni ‘60 sono il grande trampolino di lancio del cantiere. Cattadori, lungimirante, coglie i vantaggi di produzioni seriali più importanti, e li sposa mirabilmente con progetti firmati da vere e proprie star del settore. Il tentativo è chiaro, lanciarsi nel mondo dei cabinati, aprendosi, però, a diverse fasce di mercato: da una parte, il “piccoli”, scafi sotto i 9 metri ma qualitativamente capaci di essere validi week-ender; dall’altra, il mercato dei “grandi”, con scafi impegnativi e di mole ben superiore. Firmati da Illingworth, nascono così le prime due serie: l’Alpa A7 (1961; 7.0 m) e l’Alpa A15 (1962; 14.7 m).
Con l’Alpa A7 si ha un piccolo scafo pensato per un pubblico meno abbiente, uno scafo compatto, modesto, ma qualitativamente ricercato e completo di ogni comfort. Le linee sono marine, gli slanci non eccessivamente pronunciati (7 m LOA x 5.75 m LWL), con chiglia semilunga e armo in testa d’albero. Sottocoperta, 4 posti letto, piano cucina e toilette offrono il necessario per prolungare le proprie uscite, facendo del piccolo 7 metri un’ideale scafo sia per neofiti che per velisti più navigati.
L’Alpa A15, dall’altra parte, è uno scafo che vuole invece offrire di più, nascendo come Ocean Racer e, soprattutto, come il più grande scafo in VTR d’europa. È una barca “da signori” (ne verranno prodotte ben 6). Chiglia lunga, scafo stellato, armo a Yawl (con la mezzana retrostante l’asse del timone) e slanci più importanti (14.7 m LOA x 10 m LWL), ne fanno un progetto marina e di fascino per il suo tempo. Sottocoperta, oltre all’immancabile (per allora) cabina del marinaio prodiera, offre una seconda cabina doppia privata e altri 3 posti a dormire in dinette, altrimenti adibita a salottino. Non mancano l’inevitabile cucina, carteggio e toilette. I due scafi compongono la prima produzione matura e faranno da trampolino di lancio per la più ingente produzione di fine decennio.
I cult di fine anni ‘60
La produzione d’eccellenza del cantiere arriva a fine anni ‘60. In questa fase la progettazione è ormai matura, i numeri ci sono e l’interesse anche. Il cantiere guarda così a dimensioni apprezzabili ad un grande pubblico e più equilibrate rispetto ai precedenti estremi, dando così vita a due scafi capaci di consacrare il marchio per canoni che, contro ogni pronostico, saranno quelli che tutt’oggi ne popolano la memoria: qualità e attenzione al dettaglio. Nascono così, nel 1967, due nuovi progetti di Illingworth, l’Alpa A9 e l’Alpa 8.25.
L’Alpa A9, lungo 9.09 metri, è uno scafo che guarda a stilemi relativamente classici, con chiglia semi-lunga, tuga alta e profili pienamente anni ‘60. Offre volumi capienti per lo standard e si presta bene all’uso crocieristico. È l’Alpa 8.25, però, a essere qui l’innovatore, a partire dalle linee d’acqua, più moderne, con deriva a pinna e timone separato, ovviamente, con skeg. È questo anche lo scafo di maggior successo tra i due, con la produzione interrotta solo nel 1983, a differenza dell’A9, che fermerà produzione già nel ‘70.
Il 1968 vedrà poi l’introduzione del piccolo Alpa 6.7, la versione aggiornata dell’Alpa A7, se vogliamo, ma questa volta ad opera di un nome nuovo, un grande nome: Van de Stadt. Ad affiancarlo, un grande successo di Illingworth, il Maica, riprodotto per Alpa con alcune migliorie dallo stesso progettista e rinominato Alpa A11, noto anche come Alpa Maica. Due scafi di indubbio successo, destinati, però, ad essere eclissati dalla successiva introduzione del cantiere, forse l’apice assoluto della sua produzione.
Nel 1969, infatti, Alpa presenta un nuovo progetto firmato da Sparkman & Stephens. È uno sloop moderno nato per la creazione di una piccola serie destinata ad un nucleo ristretto di armatori alla ricerca di una barca con cui poter sia regatare, sia godere appieno della navigazione più pura. È l’Alpa 12.70, lo Swan 43 italiano, una vera “chicca”. Il 12.70 rientra infatti fin da subito tra i migliori progetti Sparkman & Stephens del periodo e viene ostruito da Alpa con una cura e qualità allora ancora senza precedenti. Lungo 12.65 metri (9.12 m LWL), forte di slanci importanti e linee elegantissime, venne prodotto in appena 15 esemplari, a tuga lunga o corta (i soli quattro esemplari a tuga corta sono un piccolo capolavoro d’estetica) rivelandosi presto uno scafo non solo di classe, ma anche a dir poco performante. Un perfetto coronamento per la fine del decennio. È però anche la nascita dei problemi per Alpa, il progetto risulta infatti eccellente, ma l’operazione commerciale retrostante è sfortunata, facendo vacillare le fondamenta.
Gli anni ‘70
Gli anni ‘70 si aprono subito con una seconda chicca, un gioiellino di barca. È il “piccolo” Alpa 9.50, un disegno proprio di Cattadori, che rielabora le linee del 12.70 su dimensioni inferiori, dando vita a una barca pensata per l’utilizzo come piccolo cruiser. Il successo non manca, il 9.50 è agile, compatto e piace, elegante come pochi altri 9 metri sapevano essere in quel periodo. Contemporaneamente, con il 71 i problemi economici del cantiere si fanno più profondi e, da ditta individuale, Alpa diventa società per azioni. È in questo momento che Cattadori lascia le sue quote e si ritira dall’attività. Esce, lo stesso anno, il primo Alpa 11.50, progetto di Sparkman & Stephens.
Con il 1972, coerentemente, il Cantiere cerca così una nuova direzione, che sembra trovare il suo spazio sotto il segno S&S. Nascono gli Alpa 36MS (1972) e Alpa 42 (1973), rispettivamente di 11.22 e 12 metri fuori tutto. Il disegno e le linee, però, sono diversissimi da tutto quanto fosse nato prima. La scelta della nuova direzione di cantiere guarda infatti al mondo dei bluewater e, tra alti bordi liberi e pozzetti centrali, i due nuovi scafi lo dimostrano appieno. In parallelo, il 1974 porta anche due piccoli scafi, l’Alpa 7.4 (7.4 m) e l’Alpa A8 (8.0 m), seguiti dall’A27 (8.17 m) e dall’A19 (5.7 m).
Ad affiancare questa recente flotta di “piccoli” scafi e bluewater, intanto, continua la produzione dell’Alpa 11.50. Uno scafo che seppe mantenere vivo il cantiere grazie alle sue splendide linee classiche e pulite, con slanci ancora accentuati, e tuga ancora in stile anni ‘60. Un apparente “ritorno all’ordine” tra le nuove comparse, ma che non riesce, però, da solo, a mutare la nuova linea. Nel 1976 arriva infatti un altro tentativo verso il mondo dei bluewater, l’Alpa 38, un’altro S&S, questa volta di 11.38 metri e disponibile sia con armo sloop, sia ketch.
Il declino
Priva di Cattadori, impostata su questa nuova direzione, Alpa non riesce però a riconsolidarsi e, con la fine degli anni ‘70, il cantiere chiude i battenti. Non prima di lanciare, però, un ultimo scafo, un ultimo successo da 44 esemplari. È l’Alpa A34 di Sparkman & Stephens, una barca ora moderna, pienamente figlia del suo tempo e dalle linee piacevoli. Gli slanci sono più brevi, la pinna di deriva più accentuata e il baglio massimo è abbondante, centrale. Esteticamente, è nettamente diversa da tutta la precedente produzione, un canto del cigno forse, uno spiraglio in quello che, forse, sarebbe potuto essere il look Alpa anni ‘80.
Complessivamente, nonostante il suo “breve” corso, Alpa fu però una realtà importantissima per la cantieristica italiana, non solo per quei 3 o 4 grandi cult che seppe lasciarsi alle spalle, quanto forse più per l’impostazione qualitativa e innovativa che seppe dare, creando un’eredità così importante da far si che le successive esperienze del belpaese avessero, forse, quella marcia in più che poi seppero avere.
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18 commenti su “Alpa, un’esperienza fondamentale per la vela Made in Italy”
Grazie per l’ articolo su questa eccellenza del Cantiere Alpa, anche se va ricordata la Alpa a 11 Supermaica di John Illingworth sia con chiglia oceanica lunga che con timone a skeg che denotano una linea performante lunga 11.30 e larga 2.74 che ha fatto storia negli anni 1970.
Alberto ed Eleonora Dollinar
Io ricorderei anche l’alpa skip. Certo, piccola deriva (un mini laser), ma spettacolare e ha avvicinato alla vela tantissimi
Anche la versatile ed ancora attuale Alpa Tris corma vela latina
Perfettamente d’accordo. E mi stupisce la recente “apertura” da parte dell’AIVE ai cosiddetti classici IOR (iniziativa per il momento fallimentare), trascurando scafi degli anni 60 forse non meno meritevoli di attenzione.
Perché si dimentica che il cantiere Alpa è nato con il Flying Junior (FJ dal 1977 perché Junior viene considerato “riduttivo”) di cui ha costruito più di 1000 esemplari e adottato ufficialmente dalla USVI, poi FIV, quale barca scuola.
Dopo più di 50 anni i suoi scafi veleggiano ancora.
Per quanto riguarda l’Alpa 12,70 a me risulta che il cantiere ne abbia costruito almeno 17: Al Na Ir V (per Toni Pierobon, promotore dell’iniziativa), Albatros (per Marivela), Asteria (armatore Coari), Bonita (armatore Aymerich di Laconi), Candide (armatore Paleari), Dida II (armatore Bruno Calandriello), Emily IV (armatore Bandettini), Foscarina (armatore Wessel), Gabriella (armatore Notarbartolo), Garbi (armatore Soldini, padre di Silvio), Isabella, Levantades III (armatore Diano), Kerkira III (armatore Marina Spaccarelli Bulgari e, successivamente, Agostino Straulino che la usava per andare in crociera), Nina VII (armatore Mazzucchelli), Pierrette II, Pims II (armatore Leopoldo Pirelli) e Tortuga IV di Sozzani.
Articolo con imprecisioni e omissioni.
Credo che sia assolutamente impossibile scrivere un articolo su ciò che fu l’Alpa senza incorrere in “imprecisioni ed omissioni”. Ci vorrebbe un’enciclopedia.
Menzionare i Dutchman senza parlare dei Junior ……. però nonostante i capibili errori, mi ha fatto molto piacere leggere di un mitico cantiere italiano al quale va riconosciuto il pionerismo nell’uso della vetroresina, come da voi giustamente enfatizzato. Grandi!
Con la piccola Alpa19, progetto di Philippe Harle, ho fatto il giro d’Italia, Sicilia inclusa, in solitaria. Dopo 2240 miglia, 343 giorni, 88 tappe, io ero sfinita, ma la piccola Whisper, non ha fatto una piega😎. Veleggia ancora, stabile e felice👍Con fiocco e tormentina originali (Genoa, randa e Gennaker piu’ recenti), mi ha portata a giro lungo le coste italiane senza mai darmi un problema. Con la sua andatura elegante, ha affrontato ventolate e mareggiate non da poco. Una grandissima piccola barca gialla💕
Perfettamente d’accordo. E mi stupisce la recente “apertura” da parte dell’AIVE ai cosiddetti classici IOR (iniziativa per il momento fallimentare), trascurando scafi degli anni 60 forse non meno meritevoli di attenzione.
E l’alpa 21 ?
Pieno di inesattezze e analisi superficiali. Poi il cantiere si chiamava alpa e non Alpa.
L’articolo è interessante ma chi lo ha scritto non era ben informato. Spero di rileggere a breve un articolo degno del cantiere alpa
Mi pare si sia scordata l’Alpa 15 di Franco Anselmi Boretti
Bell’articolo.Ho avuto la fortuna negli anni 70 di fare molte regate di altura con il 12.70 sia tua lunga che tua corta.Indimenticabili ingaggi e volte di poppa con spin.Venne un vota mr.Stephen a mettere a punto il piano velico poi l’armatore,fiorentino,commissionò a S&S un two tonnner in legno che ereditò un nome famoso di.quei tempi.Barca che fece da modello per la prima tesi di laurea in ing.navale di quei tempi.Ma l’alpone 12.70 è sempre rimasto nei cuori di chi allora diciottenne passava tutto il tempo libero su quella barca e con tutti i mari
Come si inserisce l’A21 nella storia del cantiere? Come evoluzione della Dodi?
Solo per ricordare, soprattutto all’ Autore dell’articolo, che alpa è sempre stato scritto con la “a” minuscola, una caratteristica del logo sin dalla nascita. Sembra cosa di poco conto ma fa la differenza …e non solo culturalmente !