Dick Carter, colui che rivoluzionò la vela di fine anni ‘60
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Lo IOR, la Golden Age della Vela, un mondo popolato da mostri sacri e scafi a dir poco leggendari. Ne abbiamo parlato non poco, passando dalle barche da regata che lo hanno reso grande, ai progettisti che vi si nascondono dietro; dai grandi scafi di serie che ne sono derivati, fino alla storia dei cantieri che vi han dato vita. Per parlare davvero di IOR, però, va fatto un salto indietro, non troppo indietro, ma abbastanza perché lo IOR ancora non esista, ai tempi dell’ultimo RORC, la seconda metà degli anni ‘60: il regno di Dick Carter.
Cult firmati Dick Carter | Parte 1.
Dick Carter non nasce come architetto navale, anzi, ben lungi da lui l’intenzione di diventare un progettista di questo tipo. Sarà il caso, o il fato se preferite, a portarcelo. Americano, Carter scopre la vela in gioventù, a Cape Cod (Massachusetts), per portarla poi avanti durante i suoi studi universitari a Yale ed oltre, sempre su barche ribattezzate “Rabbit” e sempre in parallelo al suo lavoro come ingegnere industriale (salvo un intermezzo presso la veleria Hood, dove si occuperà, però, di marketing). Nel 1962, intanto, acquista un Medalist, progetto di Bill Tripp (ribattezzato Rabbit), con cui inizia a fare regate d’altura nel nord-ovest statunitense, creando un network di conoscenze e amicizie destinate a portarlo alla svolta. Tra questi, l’ingegnere idrografico Bertrand Imbert, il quale, dopo aver corso con Carter in un Fastnet (1963), gli propone di progettare una barca insieme per l’edizione del ‘65. Bertrand, cambierà idea non poco tempo dopo ma, un Carter, ormai esaltato dall’idea, andrà avanti da solo dando vita al miracolo: il Rabbit, scafo che cambierà tutte le carte in tavola.

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Dick Carter – Albori
Celeberrima è la frase “galleggia come una barca vera”, attribuita a Carter, testimone varo del varo del Rabbit. Frase accompagnata da non poco stupore da parte di Frans Maas, costruttore dello scafo. Del resto, Carter mai prima aveva progettato una barca e, a dir la verità, neanche aveva mai preso in considerazione l’opzione. Ma con il Rabbit (10.2 x 3.15 m) farà il capolavoro, cambiando la progettazione per sempre. Il nocciolo della questione fu relativamente semplice: Carter seppe comprendere la bontà di tutta una serie di elementi progettuali poco usati e, ancor più brillantemente, ne colse le componenti positive, sapendole sposare tra loro e, contemporaneamente, progettando linee d’acqua capaci di trarre vantaggio sul rating, dando così vita ad uno scafo dai volumi e dalle linee mai viste prima.

Baglio enorme a centro-barca, sezione a calice di champagne, superficie bagnata ridotta e appendici separate furono, infatti, la vera rivelazione sottostante il Rabbit. Sopra tutte, però, la particolare attenzione dedicata alla pinna di deriva, capace di sfruttare i vantaggi in rating dati da un pescaggio limitato, ovviando però ai limiti in bolina tramite un trim tab a poppavia della stessa. Altra grande scelta, il timone separato, appeso e molto più a poppa della pinna, per migliorare il governo nelle andature portanti.
La filosofia progettuale, infatti, era semplificabile nel concetto secondo cui non è tanto la capacità orziera a sottolineare le qualità di uno scafo, quanto la sua capacità di andare veloce. E Carter, in questo senso, optò qui nel perseguire questo obiettivo, disegnando uno scafo meno orziero, forse, ma molto più veloce sul lungo corso. Componente fondamentale, a suo avviso, per la buona prestazione in regata offshore. Rabbit, al suo esordio, dimostrerà al meglio la teoria, vincendo proprio la Fastnet Race per cui era stato progettato e risultando in una svolta chiave per la progettazione navale.

Progettista per caso e artefice IOR
Prima ancora del Fastnet del ’65, però, arriva sorprendentemente la prima commissione. Eddie Stettinius, colpito dal progetto del piccolo Rabbit, chiede a Carter un cruiser-racer simile. Nascerà così Tina, specificatamente progettato per l’allora “neo-nata” One Ton Cup (in realtà la OTC esisteva già, ma nel ‘65 assunse forme più simili a come sarà poi sotto lo IOR).
Tina (11.3 x 3.3 m), concepita per la OTC, sarà figlia delle lezioni del Rabbit, ma dovrà sottostare al rating fisso One Ton da cui la precedente era invece svincolata. Inoltre, a differenza del Rabbit, dovrà anche performare meglio in termini di angolo (in bolina), per non soffrire nelle prove a triangolo previste dal campionato. Questi parametri presero forma in uno scafo simile al Rabbit per concezione, ma con pinna di deriva più profonda e fine, più snella, per migliorare la prestazione in bolina e essere agile anche con venti più intensi, risultando in uno scafo complessivamente più all-round. La formula, per la seconda volta di fila, paga e Carter firma un secondo successo: Tina vinse la One Ton Cup e Maas, di nuovo cantiere di scelta per Carter, ne produrrà tre gemelle: Esprit de Rueil, Joran e Esprit.

Sempre nel 1966, su invito di Olin Stephens, Carter entrerà a far parte del board dell’Offshore Rules Coordinating Committee. Il risultato sarà la sua diretta partecipazione nella creazione di una nuova regola internazionale, l’International Offshore Rule. È la nascita dello IOR.
L’affermazione
Con due successi su due progetti, Carter fu una piccola rivoluzione. Ma due progetti non necessariamente fanno un progettista. In parallelo alla partecipazione Offshore Rules Coordinating Committee, il 1966 portò però anche la terza commissione, quella che consacrerà Carter tra i big del gioco. È un altro One Tonner, Optimist, disegnato per Hans Beilken.
Questa volta, il disegno è ancora più vicino a quello del precedente, dimostrando la bontà del primo One Tonner progettato, ma con piccole differenze sostanziali che si riveleranno fondamentali: Optimist sarà appena più lungo al galleggiamento (12.7 cm, per la precisione) rispetto a Tina e, soprattutto, non avrà il timone appeso. Per diminuire l’instabilità con vento forte nelle andature portanti, infatti, Carter ricorre qui a soluzioni di derivazione aeronautica: fondamentalmente, riduce il problema delle interruzioni di flusso sulla pala (dovute a repentini cambi di direzione sotto spinnaker e con mare formato) disegnando un bordo d’attacco ad anticipare la pala stessa, uno skeg. Questa la novità principale su Optimist, che sarà molto più preciso e manovrabile nelle andature portanti e, conseguentemente, veloce.

Neanche a dirlo, anche Optimist vincerà la One Ton Cup (1967), con Tina a guadagnare il secondo posto, dopo la vittoria dell’anno precedente. Optimist vincerà poi di nuovo anche nel 1968. Tre progetti, tre concept brillanti. Numeri che bastano per fas sì che Carter entri ufficialmente nell’albo d’oro dei progettisti. Di colpo, la progettazione navale diventa un’opportunità di carriera. Seguiranno, negli anni appena successivi, altri grandi capolavori come Rabbit II, Noryema e Red Rooster, per citarne alcuni. Poi i maxi, gli scafi per la Bulgari e gli anni ‘70 che , però, esploreremo nel prossimo articolo.

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2 commenti su “Dick Carter, colui che rivoluzionò la vela di fine anni ‘60”
Che ricordi…di grandi progettisti e di grandi
velisti che daranno grandi risultati…
Emozionanti…
Carter 3/4 ton…….bello e basta…..