Storie dello IOR: grandi barche e grandi marinai
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Di IOR e di grandi marinai
Parlando di IOR e delle grandi barche che questo ha saputo produrre, diventa inevitabile non parlare anche delle grandi figure che lo hanno animato e popolato, donandogli una vita tutta sua che, sia per eventi, per regate e per scafi, ha fatto sognare tanti. Su questo fronte, per raccontarvi al meglio il tutto, per dar vita davvero a questa nostra intenzione di celebrare al meglio quel periodo, abbiamo un asso nella manica: Danilo Fabbroni, collaboratore del Giornale della vela, marinaio e rigger, oltre che scrittore (qui trovate i nostri consigli su due grandi sue letture per l’estate, tra cui “La Vela è bella … peccato che la fanno i velisti!”). Ed è proprio alle sue parole che, oggi, vi lasciamo, per conoscere meglio un periodo eccezionale, un periodo fatto di grandi personaggi e figure eccellenti ma, e soprattutto, di marinai come forse mai più se ne vedranno.
“Jepson”, il “Signor IOR”
Giorgio Falck, appartenente ai Krupp italiani, fu una figura certamente atipica sia nel panorama velico che nel suo mondo di provenienza: era piuttosto suo cugino Alberto a fare il paron dalle belle braghe bianche al pezzo ogni giorno, in acciaieria. Giorgio era più un gaudente del mare. Un mecenate del mare. Pochi armatori han dato in toto la propria barca come fece lui a Luciano Làdavas ed anche a Pierre Sicouri. Pochissimi, in più, hanno dato delle dritte come fece lui con Pierre, per indirizzare il suo futuro di trader delle materie prime. Me lo ricordo indelebile, accovacciato a poppa, a timonare, in quella posa che a tutti non poteva non sembrare scomodissima, a fumar come un turco, ed a tirar bordi impossibili. A la Falck. E a bordo delle sue barche, Jepson […] – protagonista di questo aneddoto, n.d.r.
[…] Jepson aveva una grande difficoltà a pronunciar nomi, anche quelli più semplici: a me si rivolgeva chiamandomi Tanile! (Danilo) A Guido Grugnola, navigatore del Rolly Go (elegante disegno di German Frers di Falck) lo apostrofava spesso così: Quite, tu che si-navifgatore! Probabile che intendesse chiamarlo col nome di Quite e col cognome Tu-che-si-navifgatore! Con la fg in mezzo al cognome. Un giorno Guido mi confidò una tranche de vie della regata attorno al mondo, la Whitbread sul Rolly Go, di Jepson che merita di non passare nel dimenticatoio. Risalendo la Patagonia, in una notte stellata con meno mare ma un po’ d’aria e la vela, genoa #3 a prua, Guido alias Quite, viene interpellato da Jepson in un duetto filosofico/esistenziale/astronomico che ricorda la patafisica di Alfred Jarry:Quite, ma che stella è quella? E Guido: Non è una stella, è un pianeta, Jepson. È Giove. Poco dopo Jepson: Si, ma che stella è? Guido: Te l’ho detto Jepson, non è una stella è un pianeta. Sempre l’instancabile Jepson: Ma che cazzo di stella è che ieri non c’era lì? Guido: Infatti non è una stella, è un pianeta. Jepson: Si, però che cazze di stella è che si muove? Guido: Va be’, Jepson, è una stella che rispetto alle altre si muove. E Jepson trionfante: Fedi Quite, te l’afefi dette che era na stella!!
Ma al giro del mondo ne successero davvero delle belle. Jepson era letteralmente terrorizzato dagli iceberg. Forse ne aveva incontrato uno o più di uno troppo vicino su qualche Guia. Non lo sappiamo di preciso, ma è un fatto che fosse spaventato a morte (anche giustamente…). Così andava sempre sotto a veder da Guido l’ultima cartina meteo trasmessa dal Nagrafax, fino a sfinirlo. Matteo Caglieris, ingegnere, si trova al carteggio, in assenza di Guido, e non sa nemmeno perché, ma scarabocchia a penna un paio di figurine sulla cartina del Nagrafax che assomigliano vagamente a degli iceberg in miniatura. Quindi si alza e se ne torna in coperta. Il caso vuole che dopo pochi secondi, ecco piombar giù di nuovo Jepson per l’ennesima volta coll’intenzion di sbirciar la cartina. Non l’avesse mai fatto! Quando vede che in mezzo alle isobare della cartina meteo, al semibuio del carteggio, gli si parano dinnanzi agli occhi le sagome inconfondibili, per lui, degli iceberg, zompa su in coperta e incomincia ad inveire come un cane idrofobo contro Guido: Quite, te l’afefo dette io che eravamo fottuti dagli sfaccimme-di-aisberghe! […]
Buffo, lunatico, Jepsen sapeva stare al timone per giorni mangiando e bevendo poco, ma la barca la portava a casa. Spesso veniva da Lavagna a Porto Cervo per le regate, da solo e senza carte, abituato ad andar per occhio e per istinto. Non che fosse uno stinco di santo, come si suol dire, ma certamente non era uno costruito o in posa. Pane al pane, vino al vino. Come quella volta per le selezioni dell’Admiral Cup, a Punta Ala, che vide, per usare un eufemismo, il Guia con un po’ di problemi di stazza. Ed allora Jepson telefona all’ingegner Falck, in ditta a Milano.
Già questo lo spazientiva a morte, in quanto ovviamente alle Acciaierie Falck gli rispondeva una delle tante addette del centralino che lo facevano imbestialire. Dobbiamo ricordarci che erano i tempi dei primi centralini telefonici avanzati e quindi, nelle ditte di una certa rilevanza, si sperimentavano le prime musichette che annunciavano la messa in attesa della chiamata. Jepson, che chiama ovviamente dal telefono a gettoni (altro che smartphone) dentro il baretto di Punta Ala gremito di velisti, ribolle e incomincia a sproloquiare così: (giù una serie di parolacce sconce irripetibili oggi…) poi di nuovo, sempre più forte, (altra serie di parolacce ancora più tremende…) per farsi sentire, le pronuncia al meglio di come le può scandire! Al che la signorina del centralino, pur distratta da mille altre chiamate fa, allarmata e scandalizzata: Che cosa ha detto?? E Jepson: AH! Ma allora ce l’afete-le-recchie!!! Ma ecco che Jepson viene passato finalmente all’ingegner Falck ed urla – neanche fosso solo nel gremito baretto – una frase indimenticabile: Incegnero … c’hanno scoperto! …. Incegnero c’hanno scoperto! E tutti a scoppiar a ridere… Da quel giorno il motto “Incegnero c’hanno scoperto!” divenne il Per chi suona la campana! Stava a dire Jepson era in porto!
Jepson era così, amava la prospettiva frontale, non era un “obliquo”. Lo potevi o detestare o esserne affascinato. D’altra parte così era anche il suo idolo, il mitico, vero Jepson, il finnico che calciava nelle squadre italiche come nessun altro! Jepson l’ho conosciuto così: se avessi l’onore di appuntare al petto la medaglia per IL SIGNOR IOR di tutti i tempi l’appunterei sul petto della cerata Henry Lloyd a GIOVANNI VERBINI, in arte JEPSON, nessuno meglio di lui incarnò lo spirito da Armata Brancaleone (nel meglio e nel peggio della definizione) che fu lo IOR.
di Danilo Fabbroni
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