Fastnet 1979: 45 anni fa la più grande tragedia della vela
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Fastnet 1979. Venti barche affondate, 19 morti, 4.000 soccorritori all’opera. Ripercorriamo, 45 anni dopo, la storia della terribile regata d’altura con la testimonianza di chi si ritrovò a lottare nella tempesta del Mare d’Irlanda: Riccardo Bonadeo.
Fastnet 1979. Una tragedia annunciata?
Sono passati quarantacinque anni da quella fatidica notte in cui si consumò la più grande tragedia della vela contemporanea.
Tra il 13 e il 14 agosto 1979, sugli oltre 350 partecipanti del Fastnet (la quinta delle cinque prove d’altura dell’Admiral’s Cup, con partenza da Cowes, nel Solent, doppiaggio dello scoglio del Fastnet, nel sud dell’Irlanda e arrivo a Plymouth per un totale di circa 600 miglia) si scatenò il finimondo: mare forza 11, venti oltre i 70 nodi (130 km/h). Affondarono 20 barche e persero la vita 19 velisti, in totale furono 194 i ritiri.
Quella che doveva essere una normale, impegnativa regata d’altura si trasformò in un inferno, costringendo la marina britannica alla più imponente operazione di soccorso mai effettuata dalla marina in tempo di pace e che coinvolse 4.000 persone tra cui l’intera flotta del Servizio Navale Irlandese, scialuppe di salvataggio, imbarcazioni commerciali ed elicotteri Sea King (nati per la guerra ai sommergibili e poi riconvertiti al soccorso marittimo).
Fastnet, il sogno di ogni marinaio
“Salendo sulla cresta di un’onda,si aveva l’impressione di essere più alti del faro sullo scoglio del Fastnet”. A parlare è Riccardo Bonadeo, armatore della fortunata serie di barche Rrose Sélavy.
Lui, al Fastnet del 1979, c’era con il suo 43 piedi (13 metri) progettato da Doug Peterson e l’esperienza vissuta è rimasta scolpita indelebile nella sua mente. “Il Fastnet, allora”, racconta l’armatore milanese, “era l’icona delle avventure atlantiche, il sogno di ogni marinaio. Infatti alla regata non partecipavano soltanto gli equipaggi dell’Admiral’s Cup (che costituiva, di fatto, il mondiale di altura a squadre di tre barche: a rappresentare l’Italia, assieme a Rrose Sélavy, i prima classe Yena di Sergio Doni – anch’essa progetto di Peterson – e Vanina di Vanni Mandelli, disegnata da Kaufman, ndr), ma tantissime barche di appassionati, esperti e meno esperti, già impegnate nella Cowes Week”.
Inoltre, molti inglesi non si erano iscritti alla regata ma correvano fuori classifica. Oltre ai 57 partecipanti all’Admiral’s, al via erano infatti presenti anche una sessantina di barche di quinta classe e circa duecento scafi indipendenti, per un totale di quasi 350 equipaggi. Questo ‘affollamento’ fu all’origine della gran confusione nella tempesta che rese ancora più difficili le operazioni di soccorso. “I ‘dilettanti’ li fecero partire prima di noi l’11 agosto”, spiega Bonadeo.
Il meteo non era dei migliori
“Il meteo annunciava che nel nord dell’Atlantico c’era una forte depressione in direzione est ma da quelle parti si regata in ogni condizione, e dato che in edizioni precedenti era stata data la partenza con meteo ben peggiori, l’organizzazione non si fece scrupoli”. All’inizio, la regata procedette normalmente. Dopo aver lasciato Cowes, le barche costeggiarono la Cornovaglia.
Ma fu proprio a ovest della Cornovaglia che le condizioni meteo incorsero in svariati mutamenti, concentrati in poche ore. Prima la nebbia, poi la bonaccia e un tramonto ‘infuocato’, poi il giro del vento e il rinforzo. Prosegue Bonadeo: “Ricordo incontrammo anche condizioni di bonaccia: la forte corrente contraria costrinse molti partecipanti, tra cui noi, a dare fondo per non arretrare. Alcuni si ormeggiarono presso un grande scoglio con sperone e si misero ad aspettare il vento con ombrelloni e sdraio”.
Fastnet 1979. Travolti dalla tempesta
Dopo cinque ore alla fonda Rrose Sélavy ripartì: il vento salì di intensità e girò, da nord-est a sud-ovest: “Ricordo che aumentò improvvisamente, noi avevamo su randa piena e un genoa 3 e fummo colti impreparati”. L’equipaggio di Bonadeo era composto da grandissimi velisti, non certo degli sprovveduti: il navigatore era l’inglese Ross Walker, al timone c’era il campione mondiale Star ’76 James ‘Jim’ Alsopp. E poi i fratelli Chicco e Conny Isenburg. “Troppa, troppa tela”, scriverà Jacopo Marchi, che faceva parte dell’equipaggio nel ‘Una regata. Una tragedia. Il Fastnet 1979’.
“La barca girava come una trottola, sbattendoci gli uni addosso agli altri, mentre tutti in coperta ci affannavamo a tentare d’imbrigliare la randa e il fiocco per ammainarli appena in tempo. Finalmente, a secco di vele, nel fracasso assordante, era giunta la voce di Ross, il nostro impeccabile navigatore inglese: ‘Ricardo… sure everybody on board! Christ!’ (Riccardo, assicurati che siano tutti a bordo! Cristo!). C’è un margine, un margine sottile, che divide in quei momenti la tragedia da una veloce corsa verso casa; la barca è come uno yo-yo, legato a un sottile filo, tenuto in mano dal Padre Eterno. In quei momenti ti ricordi di pregare”.
La barca sdraiata senza randa, le crocette in acqua, il vento che fischia a 70 nodi. Preghiere, ok, ma niente panico: “Tutto l’equipaggio fu bravissimo: dopo circa un’ora il peggio era passato e potemmo ripartire. Con lo storm jib (un piccolo fiocco da tempesta, ndr) raggiungemmo il Fastnet al lasco, mure a sinistra. Se all’inizio il mare era ‘solo’ agitato, vicino del faro, dove il fondale è più basso, le onde si trasformarono in vere e proprie colline oceaniche alte decine di metri. I frangenti ci impedivano di virare, ci riuscimmo soltanto dopo un po’, con la randa di cappa”.
“Eravamo dei sopravvissuti”
Una volta effettuata la virata, cominciò il ritorno verso Plymouth. “Non sapevamo ancora cosa fosse successo alla flotta e alle barche partite prima di noi. Ricordo che dividevo la mia cuccetta con Walker (il Rrose Sélavy era un 43 piedi, l’equipaggio era di nove persone e sottocoperta si stava a turno): quando fu il mio turno di riposo in cabina ‘rubai’ le cuffie di Ross per ascoltare la radio. Sentii il bilancio dei morti che continuava a salire. Prima quattro, poi sei, poi nove, poi… ‘Il mare d’Irlanda è un cimitero di barche’. Lì capimmo che era stata veramente tosta, che eravamo stati fortunati, fino a quel momento l’avevamo passata liscia. Tutti stavamo bene, nessuno era finito in acqua: solo Conny Isenburg soffriva il mal di mare sdraiato in sentina”.
Bonadeo e il suo equipaggio, a quel punto, ripresero a pensare alla regata: “A un certo punto ci infilammo in una specie di doppio arcobaleno concentrico. Era l’occhio del ciclone. Il vento calò sensibilmente, scendendo a 25 nodi, che allora ci sembrarono una bazzecola. Issammo un gennaker murato a mo’ di spi, ci guardammo alle spalle e vedemmo fiorirne tanti altri: usciti dall’occhio il vento riprese a soffiare forte, ma non come prima. Arrivammo facilmente alle isole Scilly, dove il tempo si rasserenò consentendoci di concludere la regata senza problemi. Per la cronaca, la nostra squadra, anche grazie ai risultati del Fastnet, chiuse in terza posizione l’Admiral’s Cup”.
Scrive Bonadeo nella già citata prefazione al libro di Marchi: “A noi era andata bene, avevamo tagliato la linea di arrivo alle 15.30 di mercoledì, sotto spinnaker e bollire, nell’unica vera giornata di sole di tutte le series (ovvero, le prove dell’Admiral’s, ndr): mi pareva stesse finendo qualcosa di magnifico e non di uscire da un incubo. L’incubo invece lo trovammo a terra, era sulle facce della folla in banchina, tanto silenziosa e diversa da quella che ci aveva salutato a Cowes alla partenza del Fastnet”.
Non abbandonate la barca!
Solo a terra, quindi, si capì la reale entità dei danni: “La maggior parte delle morti era stata causata dal panico: la gente aveva abbandonato le barche gettandosi in mare sulle zattere. C’è un antico proverbio inglese che recita ‘All the water of the world, however hard it tries, will never sink a ship, unless it got inside’ (‘Tutta l’acqua del mondo, per quanto provi e riprovi, non affonderà mai una barca, a meno che non penetri dentro’, ndr): a meno che non faccia acqua, la barca è il posto più sicuro dove rimanere durante una tempesta”.
Lo sapevano bene i team esperti in corsa per la Admiral’s Cup, tra i quali non si registrarono morti. “In questi casi, più che altro, fu difficile per i soccorritori in elicottero convincere i membri degli equipaggi a gettarsi in acqua per essere tratti in salvo con la scaletta, operazione altrimenti impossibile tra alberi e sartiame”. La versione di Bonadeo è confermata dalla testimonianza che Arthur Moss, skipper di Camargue, barca salvata e riportata a Plymouth da un peschereccio francese, rese al Giornale della Vela: “Non riuscivo a convincere i miei uomini a saltare in acqua per poter essere raccolti dagli elicotteri, ho dovuto spingerli. Ma quando è stato il mio turno, ho aspettato un bel po’ prima di prendere coraggio”.
Eugenio Ruocco
Focus. Quella tempesta che fu male annunciata
Come si creò la spaventosa tempesta che si scatenò sulla flotta del Fastnet nel mare d’Irlanda? La colpa fu di una “collisione” tra due perturbazioni. I bollettini meteo prevedevano un vortice di bassa pressione proveniente da ovest, in rapido transito: il minimo depressionario, di 1.010 millibar, non avrebbe dovuto costituire un serio rischio per gli scafi in regata. La previsione parlava di raffiche sostenute fino a 33 nodi nell’area circostante il Fastnet. Condizioni difficili, ma non realmente pericolose.
Quello a cui all’epoca si diede poca importanza, nei bollettini diramati via radio agli equipaggi, era che la perturbazione da ovest, tutto sommato di scarsa entità, aveva una consistente probabilità di scontrarsi con un’altra depressione, più lenta e profonda, che stazionava più a nord. E questo, in effetti, fu ciò che accadde. Nella serata del 13 di agosto i due vortici depressionari si fusero, il centro depressionario che ne risultò ‘collassò’ fino a un minimo di 990 millibar, generando una tempesta spaventosa con venti di oltre 70 nodi, resa ancor più pericolosa dalle onde alte come colline, amplificate dai bassi fondali intorno allo scoglio del Fastnet.
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4 commenti su “Fastnet 1979: 45 anni fa la più grande tragedia della vela”
Scrivete sempre sbagliando
Il mare non ha forza ma stato e poi secondo la scala Douglas si misura fino a 9 e non 11 come riportato da voi che non esiste
Vi invito a essere più precisi
Polemico…
Questo articolo è stato scritto talmente bene che mi sembra di aver vissuto quel momento
Ho ascoltato i racconti di alcuni partecipanti più volte (Connie ed io lavoravamo nella stessa azienda a Genova) , ho letto molti articoli su quella tragedia , ma stavolta mi è parso davvero di essere a bordo del Rrose. Complimenti all’autore.
Non dimentico mai un monito di un grande campione: “mai dare del tu al mare”