“L’Optimist come scuola di vita”. Siete d’accordo?

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optimist
Fraglia Vela Riva/Zerogradinord

Il “processo alla scuola vela” che abbiamo lanciato sul web qualche tempo fa continua. Vi ricordate dell’articolo in cui il nostro Lamberto Cesari indicava le sue ricette per moltiplicare i velisti, in regata come in crociera? L’articolo toccava anche il tema della classe Optimist: un movimento, scriveva Cesari, che da una parte è molto bello e largamente partecipato, dall’altra ha raggiunto dei livelli di esasperazione (tra numero di giorni di vela, trasferte, cambi materiali, clinic) tali che dovrebbe indurre ad alcune riflessioni, prima tra tutte sul perché le nazioni che vincono consistentemente medaglie alle Olimpiadi non investono sull’Optimist. Un articolo che ha generato molti commenti, e ha spinto anche un nostro lettore a un’approfondita analisi del sistema scuola vela in Italia messo a confronto con quello neozelandese

Alla fine, l’Optimist è la barca giusta per iniziare i giovanissimi alla vela? C’è chi dice no – preferendo classi più adrenaliniche, secondo lo spirito dei tempi, e chi invece lo difende come scuola di vita. Come un nostro lettore, Romeo Paolo Audino, che ci ha mandato queste sue riflessioni. Siete d’accordo con lui? Fatecelo sapere con un commento!


Optimist scuola di vita

In un mondo in cui estreme comodità e tecnologie sempre più imperanti stanno costruendo nuove generazioni deboli e fragili che presto si troveranno ad affrontare tempi duri e imprevedibili, la vela più degli altri sport, può essere “l’arma” di salvezza nella crescita di un individuo.

Per quanto sia senza dubbio opinabile lo sfrenato agonismo dentro cui naviga una classe propedeutica e infantile come l’Optimist bisogna comunque dare atto del grande impulso formativo che può generare nella crescita di un bambino.

Imparare a gestire una barca in piena autonomia, senza nessun aiuto esterno, essere consapevoli di avere il controllo e quindi anche la responsabilità di ogni singola azione in ogni singolo momento in un ambiente in continuo cambiamento come il mare è già di per se una situazione che metterebbe in crisi la maggior parte degli adulti. Farlo a 8 anni anche in condizioni meteo complesse e in varie località nuove e non familiari è senza dubbio uno stimolo importante che viene dato alla crescita di un bambino i cui coetanei probabilmente la cosa più particolare che stanno facendo potrebbe essere la passeggiata sul corso il sabato sera pedinati dalla mamma.

Per essere un optimista performante infatti sono richieste caratteristiche che vanno oltre il campo tecnico specifico della disciplina velica. Gli istruttori spingono per una crescita trasversale, si richiede a bambini di 8 anni di imparare a fare una valigia, a gestire in piena autonomia degli eventi che si sviluppano in più giorni. In questo contesto avvengono le acute diatribe con i nuovi genitori del secolo 2000. Genitori che hanno dimenticato come veniva gestita la loro infanzia.

Un bambino che dimentica un giubbottino salvagente anziché uscire in acqua con il più scomodo e scadente reperibile nella cala del circolo e accuratamente scelto dall’allenatore ne riceve uno nuovo di zecca o gli viene recapitato personalmente dal genitore che ha fatto chilometri e rinviato appuntamenti di lavoro per correre in supporto. Non sia mai che i nostri figli escano da queste comfort zone impenetrabili e costruite con instancabile cura. E dov’è la crescita che il mondo della marineria con la sua storica rigidità può dare ai ragazzi? Perché privarli di questo privilegio che in nessun altra disciplina sportiva viene richiesto in questo modo violento e precoce?

In quale altro ambito i bambini hanno la possibilità di provare a gestirsi in piena autonomia, lontano da casa, dai propri familiari e in un ambiente totalmente sicuro come quello organizzato durante una manifestazione sportiva in cui i circoli velici per tre giorni ospitano bambini che da tutta Italia si ritrovano a confronto? Quale altro sport chiede ai bambini di diventare adulti, assumersi il rischio e la responsabilità delle proprie azioni e fa provare loro la conseguenza dei propri errori?

Perché è riduttivo ricondurre il “fare Optimist” semplicemente a un insieme di nozioni tecniche. Per andare bene in barca bisogna essere bravi prima di tutto a terra. Come può un bambino stabilire il settore di partenza migliore valutando i salti di vento e i movimenti di altre 80 barche se non si è in grado neanche di vestirsi in autonomia? Eppure sempre più difficilmente si coglie questo valore aggiunto e si tratta questo sport con una superficialità estrema non rendendosi conto che semplificare determinate problematiche congenite in questo sport allontana dalla formazione che esso regala.

Lasciamo sbagliare i nostri figli

Lasciamo che i figli sbaglino, lasciamo che imparino a infilarsi una stagna da soli, lasciamo che imparino a scegliere come meglio vestirsi per affrontare sei ore in acqua con la magnifica opportunità di sbagliare e pagarne personalmente le conseguenze per imparare la lezione. Lasciamo che provino l’inquietudine dei primi gironi lontani da mamma e papà, lontani da casa. Facciamo in modo che tutte queste prerogative siano l’humus in cui si coltiva la crescita sportiva della disciplina velica vero valore aggiunto della vela.

E anche l’agonismo e la competizione, lasciamo che arrivi con i propri e soggettivi tempi, c’è chi a 6 anni già ha la maturità competitiva di un adolescente, chi invece affronta questo mondo giocando, ma comunque entrando in questo circolo virtuoso di crescita. Troppo spesso si vedono genitori scontenti dei risultati dei propri figli, genitori che non credo a dieci anni fossero campioni italiani di qualcosa. La crescita sportiva dei bambini non è uguale per tutti e soprattutto, il talento è un complesso algoritmo che in rari casi si individua in una così tenera età. Il campione in carica di basket NBA è un ex ragazzone cicciottello che a 15 anni faticava a cercare qualcuno che volesse giocare a basket con lui.

No, non è l’Optimist troppo stressante agonisticamente, siamo noi che ci stiamo dimenticando come siamo stati cresciuti e non ricordiamo che ogni errore, ogni sbaglio di cui abbiamo realmente colto l’amara conseguenza, ogni pianto giustamente inascoltato non è stato un evento traumatico o una crisi che richiedesse l’aiuto di un team di psicologi, ma vera spinta di crescita e formazione. Applaudiamo chi ha la mentalità della competizione e incitiamo a continuare anche chi gioca per il piacere di giocare, lasciamo che imparino a perdere, a trasformare ogni sconfitta in vittoria e staremo costruendo i campioni del futuro qualcuno nella vela e qualcuno nella vita.

Scegliamo dunque di fare vela, buttiamo i nostri figli in questa avventura senza privarli dell’opportunità di sbagliare, di piangere per le delusioni e di prendersi le peggiori strigliate dall’unica persona che ha così tanta fiducia in loro da prendersi la responsabilità di portarli in acqua con tutte le condizioni meteo nei più disparati posti d’Italia, di lasciarli liberi di scegliere come organizzarsi (abbigliamento, alimentazione etc etc), appassionati cultori dell’errore che sanno che la strada più breve per raggiungere il successo è quella più dura, più scomoda, più in salita, quindi meglio allenarsi a affrontarla su una scatola di resina in mezzo al mare piuttosto che arrivare impreparati nella vita reale, estremamente più perigliosa.

Romeo Paolo Audino


Che barca è l’Optimist

Criticato, bistrattato, accusato di essere vecchio, eppure in Italia, come in buona parte d’Europa (differente il discorso nell’emisfero sud), l’Optimist è ancora la barca più numerosa nell’attività velica destinata ai bambini. Disegnato nel 1947 dall’americano Clark Mills, lungo appena 2,35 metri, sbarca in Europa a metà anni ’50 e oggi conta oltre 300.000 nuovi giovani velisti ogni anno, numeri impressionanti che da soli basterebbero a cancellare ogni critica. La sua fortuna è dovuta ad alcuni fattori: al netto di un’estetica “antimarina” e di alcuni obiettivi limiti tecnici che andremo ad analizzare, i punti forti dell’Optimist sono la costruzione semplice, il prezzo contenuto, la leggerezza, il rig essenziale, un piano velico intuitivo da regolare, e una generale facilità di conduzione. Attenzione però, come vedremo la facilità di conduzione non implica che sia semplice diventare bravi e vincenti sull’Optimist, anzi.

Costruzione

L’Optimist è una barca One Design dal 1996 ma prodotta da numerosi cantieri con un prezzo medio che parte da 2.900 euro. Ciò significa che le barche devono essere tutte uguali e i margini di tolleranza sono minimi per essere classificata come barca monotipo. Ogni scafo per partecipare a manifestazioni ufficiali, riconosciute dalle federazioni nazionali e internazionali, deve quindi superare la prova della stazza per essere certi che rispetti i canoni e le regole della classe. La costruzione, in vetroresina, si articola sostanzialmente su tre elementi: lo scafo, il bordo e la panchetta che fa da sostegno all’albero, la paratia centrale con la cassa di deriva. Una costruzione essenziale, per un peso finale di 35 kg che consente anche a un bambino di trasportarla a terra su un carrellino, o di prenderla a braccio insieme a uno o due compagni di squadra per spingerla in acqua.

Albero e piano velico

L’albero è un “palo” che non consente alcuna preflessione, anche perché non c’è nessuna attrezzatura a bordo che possa fletterlo. Tramite la regolazione del piede si può gestire il rake, ovvero l’inclinazione diagonale verso poppa, per rendere la barca più o meno orziera a seconda del peso del velista e delle condizioni meteo. La vela, dalla particolare forma quadrata, è regolata dalla scotta, da un tesa base, dal vang e dal picco e collegata all’albero attraverso una serie di stroppetti non essendo prevista una canaletta. La regolazione del picco è una delle più importanti: è decisiva nel controllo del grasso sulla vela, ma risulta facilmente visibile agli occhi del velista. Una piega diagonale attraverserà la vela avvisando il giovane optimista che il suo picco non è cazzato a dovere.

Conduzione

L’Optimist è una barca facile e maneggevole, consente in pochi giorni a qualsiasi bambino di manovrare. Questo non significa che sia però una barca facile da portare al 100%. La sua semplicità la rende perfetta per la scuola vela. Basta pensare che uno dei metodi classici del primo giorno di scuola prevede di mettere a bordo il bambino senza vela, e farlo muovere solo con lo spostamento del peso e le correzioni di timone, prendendo così rapidamente confidenza con le reazioni della barca che anche in questo caso saranno decisamente intuitive.

Dal punto di vista della scuola vela nessun bambino, anche quelli fisicamente più minuti, è inadatto a questa barca. Per chi decide invece di proseguire su un percorso agonistico il punto di vista cambia. La forma dello scafo, con la particolare prua quadrata, obbliga i più tecnici a un lavoro continuo di spostamento del peso in base al vento e alle condizioni dell’onda. La giusta attenzione a questo dettaglio cruciale causa delle differenze di velocità macroscopiche, ed è così che si scava il solco tra chi entra in sintonia con la barca e chi invece rimane al livello della scuola vela.

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10 commenti su ““L’Optimist come scuola di vita”. Siete d’accordo?”

  1. Un altro, l’ennesimo, pseudo-trattato su come, dove e quando i genitori sbagliano.
    Punto di vista direi molto parziale, perché offre una panoramica, che seppure abbastanza fedele, non è completa e soffre del solito pregiudizio, trascurando – tanto per fare un esempio – che quegli stessi genitori che spendono patrimoni e che vengono costantemente vituperati e additati come cause di tutti i mali e della mancata crescita umana, sociale e sportiva dei figli, sono anche quelli che li hanno messi al mondo e un giorno li hanno iscritti ad un corso di vela … e quelli che, comunque, quando serve, si rimboccano le mani (o le mettono nel proprio portafoglio).
    Poco lusinghiero, poco corretto, molto – troppo – semplicistico, se raffrontato ad una realtà complessa come quella del mondo Optimist.

    1. Io invece credo che la disamina effettuata sia assolutamente calzante e adattabile non solo alla vela ma a tutto ciò che ruota attorno ai figli. Io, da genitore, mi rivedo moltissimo in quello che viene detto e ritrovo anche la maggior parte dei genitori degli amici di mio figlio.
      Come ho detto, il discorso non vale solo per la vela e non c’entra nulla mettere mano al portafogli, lo avevano fatto anche i miei genitori quando mi avevano fatto fare il primo corso di vela da giovanissimo e tutte le regate che sono seguite sopo. Quello che era diverso era l’approccio verso i figli, volto a responsabilizzarli, senza necessariamente risolvere loro ogni problema, rendendoli alla fine meno fragili.

      1. Non intendevo e non intendo difendere un modello comportamentale di molti genitori. Ma parlare di Optimist e finire per parlare principalmente di questo fenomeno che hai descritto fedelmente, per me è riduttivo e fuorviante.
        A mio avviso il punto su cui credo manchi una seria riflessione (non solo tua eh) è che questo movimento vive di una contraddizione di fondo, ossia esiste e si afferma ogni giorno di più grazie alla categoria dei genitori che poi però vengono considerati il male assoluto… Credo si debba cominciare a chiamare le cose col loro nome e finirla con le ipocrisie: chi vende materiali tecnici di ultima generazione che manco in Coppa America, chi elabora l’ultima modifica allo scafo, chi vende una vela ad oltre 400 euro, chi produce abbigliamenti tecnici top per bambini di 8-10 anni, e li vende a costi enormi, chi organizza manifestazioni che spostano il PIL della cittadina che le ospita, dovrebbero finirla di fare poi la morale a coloro che poi queste cose di fatto le consentono coi loro soldi. Ripeto è un mondo molto molto complesso, ci sono moltissime cose che si potrebbero dire … parlare solo dei genitori non offre il quadro giusto. Poi sul fatto che i ragazzi devono imparare a cavarsela da soli, sono d’accordo…

  2. Un bimbo può avere diversi gradi di maturazione, impartire in educaziione militaresca a 8 anni lo trovo sbagliato. Quanti bimbi hanno lasciato la vela il nuoto o altro sport perché super stimolati da genitori frustrati o da allenatori “Rambo”? In tenera età lo sport deve essere divertimento, socializzazione, rispetto dei tempi dei bimbi. Spero che le esperirnze in optimist possano entrare nei migliori ricordi di infanzia, niente a che vedere con stucchevoli e deleterie pretese di educazione o meglio diseducazione militaresca. Cordiali saluti a tutti. Valter.

  3. Credo proprio che i bambini non debbano essere considerati un elemento da armonizzare con il gioco, ognuno con i suoi tempi, e voglio sottolinearlo, senza far diventare la competizione il centro del problema.
    Non tutti andranno in coppa ma di sicuro molti potranno un giorno diventare marinai attenti e consapevoli

  4. Scusate ma rileggendo mi accorgo di un non di troppo nella prima frase.
    Intendevo che non debbono essere ossessionati da marzialità o oppressi dall’ambiente nel quale vivono, ognuno ha la sua storia ed il suo modo di essere aiutato a trarre beneficio dalla vela, non è pungolandoli che a mio avviso si riconosceranno domani i giovani marinai

    1. vvv.monaco@gmail.com

      Finalmente un articolo utile e di sicuro interesse per chi vuole imparare
      Sul serio la vela. Nonostante l’Optimist sia una scuola per i più piccoli andrebbe letto con molta attenzione da molti adulti che ritengono l’acquisto di una barca raffinata e costosa, la soluzione migliore per sentirsi grandi velisti. Tutti noi, anche settantenni, dovremmo imparare da chi ha scritto una scuola di vita, più che insegnare l’utilizzo del vento sul proprio scafo aldilà delle caratteristiche e dal blasone del tipo di imbarcazione a vela. Grazie di questa scuola di umiltà a chi ha scritto l’articolo
      Valerio Monaco

  5. Buoansera, lei è istruttore di vela, è chiaro, non so se è anche genitore, ma scommetto 1 euro che non è psicologo.
    Battute a parte, questo articolo pecca di tante piccole colpe, veniali, dato che l’intento era solo di generalizzare e provocare i genitori invitandoli a fidarsi di più dei loro figli e dei loro istruttori.
    Ma c’è un punto su cui invito lei e chi legge a riflettere: quando scrive che “Il campione in carica di basket NBA è un ex ragazzone cicciottello che a 15 anni faticava a cercare qualcuno che volesse giocare a basket con lui.”
    Cosa intende? Che la sofferenza della solitudine e della ciccia (…) hanno stimolato nel bambino la ‘cattiveria’ che lo ha fatto progredire tecnicamente, perdere peso e trovare successo e compagnia?
    Che diventare campioni dovrebbe essere il desiderio di ogni bambino che fa optimist e dei rispettivi genitori? Sicuro che non sia solo il suo desiderio per loro o forse per sé ?
    Le domande non sono retoriche. Questo sillogismo con questi termini forti infanzia, ciccia, solitudine, campione, è rivelatore di una mentalità e di un approccio personale semplicistico e presuntuoso anche al netto dell’ “io sono io” Ed è pericoloso, in funzione del forte ascendente che un istruttore di sport ha sui suoi allievi.
    Cosa penseranno leggendo questo esempio i bambini del suo circolo con qualche kg in più? e i rispettivi genitori? o i suoi allievi sono tutti in perfetta forma fisica?

    Andando nel caso poi: non so dove lei abbia letto che LeBron James, perchè immagino si riferisca a lui, da piccolo era uno sfigato cicciottello. Ha avuto sì un’infanzia difficile, senza padre, in un contesto sociale povero e degradato, a 9 anni per volere della madre viene affidato alla famiglia del suo coach, ma se c’è una persona che LeBron James ha sempre pubblicamente ringraziato per il sacrificio, la forza e l’amore che gli trasmetteva è stata la Mamma!
    E non penso voglia dire che sua mamma lo corcava di mazzate se sbagliava un tiro libero nè che sia un mammone.
    Per me vuol dire che le esperienze non sono nè paragonabili nè replicabili, ma che si condividono!
    La vuole un’idea ? Dato che LeBron James è il suo idolo, chiami il LeBron James locale e lo inviti a fare un incontro al circolo con i suoi piccoli allievi, magari lasciando parlare lui.

    Il lavoro dello “psicologo” come lo definisce lei, il perchè, se e come un bambino debba o desideri diventare campione è una cosa complessa e da non banalizzare, al pari del suo lavoro.
    Cordialità

  6. Buonasera, lei è istruttore di vela, è chiaro, non so se è anche genitore, ma scommetto 1 euro che non è psicologo.
    Battute a parte, questo articolo pecca di tante piccole colpe, veniali, dato che l’intento era solo di generalizzare e provocare i genitori invitandoli a fidarsi di più dei loro figli e dei loro istruttori.
    Ma c’è un punto su cui invito lei e chi legge a riflettere: quando scrive che “Il campione in carica di basket NBA è un ex ragazzone cicciottello che a 15 anni faticava a cercare qualcuno che volesse giocare a basket con lui.”
    Cosa intende? Che la sofferenza della solitudine e della ciccia (…) hanno stimolato nel bambino la ‘cattiveria’ che lo ha fatto progredire tecnicamente, perdere peso e trovare successo e compagnia?
    Che diventare campioni dovrebbe essere il desiderio di ogni bambino che fa optimist e dei rispettivi genitori? Sicuro che non sia solo il suo desiderio per loro o forse per sé ?
    Le domande non sono retoriche. Questo sillogismo con questi termini forti infanzia, ciccia, solitudine, campione, è rivelatore di una mentalità e di un approccio personale semplicistico e presuntuoso anche al netto dell’ “io sono io” Ed è pericoloso, in funzione del forte ascendente che un istruttore di sport ha sui suoi allievi.
    Cosa penseranno leggendo questo esempio i bambini del suo circolo con qualche kg in più? e i rispettivi genitori? o i suoi allievi sono tutti in perfetta forma fisica?

    Andando nel caso poi: non so dove lei abbia letto che LeBron James, perchè immagino si riferisca a lui, da piccolo era uno sfigato cicciottello. Ha avuto sì un’infanzia difficile, senza padre, in un contesto sociale povero e degradato, a 9 anni per volere della madre viene affidato alla famiglia del suo coach, ma se c’è una persona che LeBron James ha sempre pubblicamente ringraziato per il sacrificio, la forza e l’amore che gli trasmetteva è stata la Mamma!
    E non penso voglia dire che sua mamma lo corcava di mazzate se sbagliava un tiro libero nè che sia un mammone.
    Per me vuol dire che le esperienze non sono nè paragonabili nè replicabili, ma che si condividono!
    La vuole un’idea ? Dato che LeBron James è il suo idolo, chiami il LeBron James locale e lo inviti a fare un incontro al circolo con i suoi piccoli allievi, magari lasciando parlare lui.

    Il lavoro dello “psicologo” come lo definisce lei, il perchè, se e come un bambino debba o desideri diventare campione è una cosa complessa e da non banalizzare, al pari del suo lavoro.
    Cordialità
    Silvio R.

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