Uno Swan 65 italiano sta battendo tutti al giro del mondo (Vittorio Malingri racconta perché)
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Steinlager II e Lion of New Zealand, la scorta d’onore, nomi leggendari per chi ha idea di cosa significhino. La prima fu l’iconica barca con cui Sir Peter Blake (forse il più grande marinaio di sempre) vinse la Whitbread Round the World Race del 1989-90, unica nella storia a vincere tutte le tappe, 6 su 6. La seconda, sempre con Blake al timone, fu vincitrice della Sidney-Hobart dell’84, per poi partecipare alla Whitbread dell’85. Due pezzi di storia, insomma, ad accogliere Translated 9 al suo arrivo in Nuova Zelanda, reduce di una traversata micidiale, corsa con il coltello tra i denti e conclusasi con una triplette clamorosa: 1° posto in Line of Honors, 1° posto in IRC; 1° posto in classe (Flyers). Questo, insomma, il risultato dello Swan 65 italiano in questa seconda tappa della Ocean Globe Race, la regata intorno al mondo che celebra la prima Whitbread Round the World Race (1973), correndo in equipaggio (di cui la maggior parte non-professionista) con le tecnologie degli anni ’70.
Translated 9 domina la seconda tappa della Ocean Globe Race
Se la vittoria in prima tappa (Southampton – Cape Town) già segnò un risultato importante, non solo per equipaggio e team, ma per l’Italia –che per la prima volta si è aggiudicata una vittoria in Leg in una “Whitbread”– questa seconda vittoria fa clamore. Soprattutto se si considera la concorrenza, scafi più nuovi e lunghi, ma soprattutto, scafi incredibili, tra cui il Pen Duick VI di Tabarly e Maiden, ex-barca della grandissima Tracy Edwards. Ne abbiamo parlato con Vittorio Malingri, skipper dello Swan 65 Translated 9, che ci ha raccontato la tappa e parlato del futuro, con Capo Horn di fronte ad aspettar tutti.
Per chi non sapesse cosa è la Ocean Globe Race, ve lo spieghiamo QUI
Cape Town – Auckland: l’impresa di Translated 9
Cape Town – Auckland. In poche parole significa lanciarsi subito a Est lungo le coste meridionali africane, buttarsi nell’Oceano Indiano e scappare a Sud, tanto a Sud, giù, verso i 40° sud e oltre, al limite con i 50°. E non a caso li chiamano i Quaranta Ruggenti (the Roaring Forties): il vento picchia per davvero, le onde sono palazzine di due o tre piani e fa freddo, tanto freddo. E così via, correndo verso Est, oltre Cape Leeuwin, oltre l’Australia, fino a tornare a Nord imboccando il Mar di Tasmania, a nord delle coste paradisiache della Nuova Zelanda, fino a raggiungerne la punta Nord, per tornare quindi a Sud verso il golfo di Auckland. Quasi 40 giorni di mare. Tanslated 9 ha conquistato così il suo podio, in 36 giorni e 7500 miglia nautiche. Ecco cosa ci ha raccontato Vittorio Malingri, skipper per le 4 tappe:
“Siamo partiti carichi fin dall’inizio” –racconta Vittorio– “con l’obiettivo di arrivare per primi in reale. E fin dalla partenza ce le siam suonate con gli altri, soprattutto con il Pen Duick, già sulla linea. A 5 minuti dal via ancora avevamo le vele giù e un uomo in testa d’albero a sistemare le ultime cose. Era un albero nuovo. Appena partiti, con Maiden, Spirit of Helsinki ed il Pen Duick che scappavano più veloci, ci siamo buttati a Sud, tendendo lo spinnaker più a lungo, oltre i 30 nodi, per recuperare quel che potevamo spingendo la barca al limite. Poi giù a “cattedrale”, Genoa tangonato e scappando a cannone. “
“Siamo arrivati al primo waypoint più a Sud di tutti, per poi tornare a nord per evitare due depressioni dal dal bollettino, ma non sono mai arrivate e siamo piano tornati verso sud, affidandoci al barometro e al fiuto. A quel punto siamo scesi parecchio, giù verso sud, per sfruttare di più le depressioni e fare meno strada.”
“Abbiamo preso depressioni importanti, tanto vento al traverso, a volte al lasco. Ci siamo rimasti una settimana, a lottare con il vento dietro nelle depressioni, senza sole, con 1, 2 gradi, onde enormi e nebbia, a scappare verso est, per poi risalire verso il 2° waypoint. Qui abbiamo perso un po’ d’aria, e miglia di conseguenza, con Spirit of Helsinki e Maiden che hanno recuperato un buon centinaio di miglia su di noi, avvicinandosi non poco. Il Pen Duick intanto era fuggito 400 miglia avanti. Raggiunto il Way Point siamo scappati di nuovo giù a sud, nei quaranta ruggenti. Qui però non sapevamo più dove fossero gli altri perché la radio faticava a lavorare.”
“A fiuto e a barometro siamo scappati sempre più a Sud, altra depressione e fronte da dietro. Ipotizzando che anche il Pen Duick fosse già con noi, davanti. Un po’ di giorni dopo, mentre già salivamo verso la tasmania, ci siamo resi conto, guardando le pilot charts, che lì ci sarebbe stata meno aria, così abbiamo deciso di rimanere giù più a lungo, tenendoci a alti nei 40 per risalire a Nord dopo. Passata la depressione siamo tornati verso il sole, con latitudini più miti e vento a scendere. In una bolina larga. Qui la paura era rimanere senza vento mentre quelli dietro invece lo avevano e correvano col coltello in bocca.”
“Solo una volta arrivati vicino alla Nuova Zelanda abbiamo scoperto di essere qualche centinaia di miglia davanti a Maiden e al 651 (Spirit of Helsinki), mentre Marie (Tabarly, Pen Duick VI) non sapevamo dove fosse. Il tutto, correndo lungo quel paradiso che è la costa Neozelandese. Appena girata la punta Nord ha cominciato a calare il vento, ma è tornato nella notte, tra le isole. Venti, venticinque, trenta nodi e via a salire, tutto di bolina stretta, appiccicati alla costa fino al mattino, quando abbiamo trovato Steinlager II e Lion New Zealand ad aspettarci. Stupendo. Ci hanno scortato fin nella baia che precede il canale che porta a Auckland, tutto sotto un’onda dura in faccia, stronza.”
“Un passaggio molto figo, tutti in falchetta. Ovviamente, ci è andata bene fino all’ultimo, dove siamo comunque stati graziati. Bello, entriamo finalmente nella specie di porto-canale davanti Auckland, tenendoci stretti su un lato, per evitare l’area adibita al traffico commericale, e qui bolinamo verso la linea d’arrivo. Una bolina stretta, piena di virate perchè lo spazio non è molto. Tutte virate strettissime, fino all’ultima, con la falchetta in acqua viro e la barca niente, prua al vento e ferma immobile. Banco di sabbia. Sono stati 45 secondi durati un’ora, ma con le vele a collo e sbandando la barca ne siamo usciti facilmente in realtà. Poi il traguardo, primi. Stupendo.”
Considerazioni, Capo Horn e l’arma letale: Pietro Luciani
Fondamentalmente, come ha sottolineato Malingri, la Ocean Globe Race ha 2 categorie di partecipanti: chi vuole vivere l’avventura del giro del mondo, e chi invece arriva con il coltello tra i denti e vuole vincere. Ovviamente, la Flyer Class corrisponde alla seconda.
“Per noi, l’approccio è stato semplice: la barca era sfasciata e l’abbiamo rimessa in sesto al pari di una barca costruita da nuovo. Quindi c’è poco da fare, poche scuse. Abbiamo una barca nuova in pratica, ma siamo l’unica barca da crociera. Poi, certo con la nostra deroga in Flyer Class (Translated 9 –ex ADC Accutrac– è in Flyer in quanto scafo partecipante ad una Whitbread), siamo diventati lo Swan 65 più competitivo ma, da progetto, è comunque uno scafo con spirito differente. Ma ha i suoi vantaggi. Noi abbiamo spazi comodi, il boiler, l’acqua calda il riscaldamento. E abbiamo avuto fortuna. Certo, onde di 7/8 metri non sono uno scherzo, venti davvero pesanti, ma le mazzate le hanno prese quelli dietro. E poi che bello questo spirito “Translated”, veder crescere le persone a bordo. Sono dei grandi, diventati dei mostri, davvero bravi bravi.” (ndr. Il 70% dell’equipaggio non è professionista ed è in larga parte composto da giovani).
“Per la prossima tappa, l’obiettivo è coltello tra i denti, e provar a far primi su ogni fronte. Poi quel che verrà verrà. Ora ci sarà da sistemare bene la barca, perché è fondamentale essere efficienti e partire con ogni cosa al al top. Poi si andrà giù a destra, facendo la strada più corta e tirando il collo alla barca entro un limite accettabile di rischio, sia per lo scafo che per le persone. E vedremo, nessuno a bordo ha mai fatto l’Horn, sono curioso. Avremo, tra l’altro, anche Trombetti come co-skipper, oltre a un’arma letale: Pietro Luciani. Lui, davvero fortissimo, quindi è un sacco figo avere lui a bordo, un gran navigatore. Insomma, vediamo cosa succede.”
Ocean Globe Race: anatomia della Classe Flyer
Ora, per capire il clamore, andrebbe analizzato anche un parametro che, seppur non fondamentale, vuole la sua, soprattutto guardando alla Line of Honours: gli scafi in acqua. Translated 9 è, forse la 3, se non 4 barca in termini di velocità. Il parametro è semplice: tipologia di progetto, destinazione d’uso originale, età, lunghezza al galleggiamento.
Translated 9 è, infatti, uno Swan 65, iconico progetto del 1971 firmato Sparkman & Stephens. È una barca di serie, l’eccellenza tra i performance-cruiser del suo tempo, ma è una barca di concezione inusuale per questo tipo di attività: gli slanci sono abbondanti, la lunghezza al galleggiamento è ridotta, e pesa, tanto. Del resto, era una barca concepita per la crociera d’altura, è comoda e solida, ma è massiccia. Certo, poi corre. Come progetto ha vinto la prima Whitbread, nel 73’, conquistando poi il 2° e 5° posto nel 77’ (Translated 9 fu la quinta, allora ADC Accutrac). Ma, sul piano teorico, gioca in svantaggio.
Il Pen Duick (prima di Éric Tabarly, ora di Marie Tabarly) venne progettato per la Whitbread del ‘73, partecipando poi anche nel ‘77 e nell’81, ed è più lungo, con ben 22.25 metri in Loa contro i 19.8 di Translated 9, cui si sommano gli slanci inferiori, per un paio di metri in più al galleggiamento, che valgono tranquillamente un paio di nodi.
Maiden, a sua volta, è un racer tanto puro quanto iconico, un 58 piedi del ‘79 portato alla gloria da Tracy Edwards, che lo infilò nella leggenda con la Whitbread del 1989, skipper e fautrice del primo equipaggio tutto al femminile, nonché secondo classificato nella sua classe. Un’icona, insomma, più piccola tra tutte, con i suoi 18 metri, ma più nuova, leggera e veloce.
Il Neptune (1977) e L’Esprit d’Equipe (1981) concludono la Classe Flyer, ambedue grandi reduci della Whitbread e più nuovi. Più corti anche, in LOA, ma diversi per concezione, con sbalzi minimi rispetto ai progetti dei primi anni ‘70, e quindi con lunghezze al galleggiamento equivalenti, ma pesi diversi. Senza contare che, anche loro, furono progettate per questo. Però, come da spesso ci dimostra la vela, questi sono tutti dettagli, inezie in mare. Il gioco lo fanno mille altri aspetti, mille altre coincidenze e casistiche, e gli equipaggi.
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