Gianluca Guelfi, il progettista italiano dei Class 40 che vanno più veloci INTERVISTA
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I nostri “cugini” ci avevano visto giusto. Alla partenza della Transat Jacques Vabre, tra i Class 40, i telecronisti francesi di France 3 parlavano dei les italiens favoriti con le loro barche dalla prua arrotondata. Quelle del vincitore Ambrogio Beccaria, autore di una prestazione magistrale, di Alberto Riva e Andrea Fornaro (ottavo dopo una lotta per il podio), i Musa 40 disegnati da un astro nascente della progettazione.
Gianluca Guelfi, progettista prodigio
Un ragazzo di 35 anni di nome Gianluca Guelfi, classe 1988 di Pietrasanta: un “geniaccio” nato in quella Versilia generosa di onde per fare surf ma povera di vento. Un ragazzo che sulle barche a vela non era mai andato ma, studiando, ha capito come funzionavano. Che appena ha potuto è andato a imparare dai francesi e che adesso, oltralpe (dove peraltro vive, a Lorient) è rispettatissimo. E qualcuno lo teme anche. Abbiamo chiacchierato con lui scoprendo come… Gianluca Guelfi è diventato Gianluca Guelfi (lo abbiamo anche premiato al Velista dell’Anno 2023 nella categoria “Innovation”).
Gianluca, qual è il tuo primo ricordo legato al mare?
Sono nato nella “California italiana”, quindi i miei ricordi sono legati al surf. Mi dedicavo più al vento che alle onde. Si, ho fatto un corso di vela in deriva, ma la scintilla non è scattata.
In famiglia c’erano dei velisti?
No, sono figlio di un milanese e di mamma italiana nata in Libia. Mi dispiace deludervi, ma non sono cresciuto a pane e vela…
Ma quindi come è nata la tua passione per le barche?
Due sono le cose che mi hanno sempre interessato, fin dall’adolescenza. La fisica, e il mare.
Dopo lo Scientifico, ho anche fatto il pre-test per la Normale di Pisa. Ma mi sono reso presto reso conto che non era la fisica teorica ad affascinarmi. Una teoria può essere bellissima. Ma rimane pur sempre una teoria. Difficile che una funzione, o un’equazione, ti faccia vibrare di passione. Ero più affascinato dall’applicazione pratica di una teoria, e dalla sua messa in opera “artigianale”. E cosa c’è di più artigianale, ma allo stesso tempo complesso, di una barca? Il trait d’union tra i miei interessi. La fisica e il mare. A 18 anni, dopo il liceo, decisi che avrei progettato barche.
Senza sapere andare in barca.
Mentre frequentavo i corsi di Ingegneria e Architettura Navale tra Genova e Spezia ho fatto le mie prime vere esperienze in barca. Sono anche stato a Caprera, un paio di volte (ma non sono un caprerino!). Ad ogni modo, nei corsi base, mi dicevano “Gianluca, non è possibile che tu non sia mai andato in barca. Sai già tutto! Anche come regolare le vele”. Sapevo tutto perché avevo studiato sui libri, e mettevo in pratica quanto imparato. Mi davano sicuramente del secchione di bordo!
Che barche ti sarebbe piaciuto progettare, un giorno?
Quelle oceaniche. Non quelle di “grande serie”, da crociera. Lì subentrano processi e logiche industriali che mi interessano meno. Mi piaceva l’idea di costruire la barca attorno alla persona che avrebbe dovuto navigarci. Skipper e barca sono due elementi che devono funzionare assieme. Ed ero affascinato, dopo aver letto “Nel Blu” di Giovanni Soldini, dal mondo della Bretagna e della Normandia. Dove la gente si costruiva le barche in garage, dove la passione faceva rima con autocostruzione. Un mondo di “pirati” diverso da quello italiano, dove invece la vela è “yachting”.
Ecco perché sei andato in Francia, appena hai potuto.
Dovevo avvicinarmi all’oceano, navigare, imparare. Nel corso del mio terzo anno di studi ho scritto a tantissimi studi di progettazione francesi per uno stage. Per mia fortuna, mi ha risposto quello di Marc Lombard. Poco importa se non parlavo francese. Ho preso subito casa a La Rochelle, vicino allo studio. In ufficio, mi dicevano “sappi che nella sedia dove sei ora, si sono seduti qui Guillaume Verdier e tanti altri progettisti, speriamo ti porti bene”.
Ho imparato tantissimo da Lombard, soprattutto da colui che è stato il mio mentore nello studio, Eric Levet. Ho capito che cos’era, davvero, una barca oceanica e come lavorare in team. Ho appreso l’arte del dettaglio, la ricerca della leggerezza dai migliori virtuosi della costruzione. Da stagista, la mia prima esperienza di progettazione in squadra è stata con il Marsaudon Composites 34 “Patton”, una barca IRC con carena ottimizzata per la navigazione offshore che ha vinto tantissimo. Eric mi ha voluto a bordo per testarla dopo il varo, a Lorient. Navigare su una barca che avevo contribuito a “pensare” è stato bellissimo. Ne ha parlato anche il Giornale della Vela, di quella barca.
Il GdV ti ha “aiutato”. Puoi spiegarci come?
Vero (sorride, ndr): ho scritto la mia tesi triennale su un Class 40. Pubblicaste un articolo dal titolo “Un Class 40 come tesi di laurea” e venne notato dal mitico Bert Mauri, che mi contattò subito. “Sono contento del lavoro che hai fatto, vieni a trovarmi”, mi disse. In quattro e quattr’otto ero nelle colline riminesi, con un lavoro per le mani.
Mi chiese di occuparmi delle nuove pale del timone in composito del Class 40 Bet 1128, di Gaetano Mura. Quello fu il mio esordio come progettista “retribuito”. Bert è un grande. Mi presentava ai suoi amici come “il progettista del futuro” e tra i tanti, mi mise in contatto con Pacifico d’Ettorre, velista marchigiano dalle idee molto originali…
In che senso, originali?
Le sue teorie idrodinamiche partivano da un concetto che riporto in modo alquanto colorito: “Se le prue affilate fossero più efficaci che quelle tonde, l’uomo nascerebbe con il c…. a punta”. Da lì nacque l’idea di un Class 40 con la prua “scow” e volumi sempre maggiori davanti. Anche questo progetto, il “Pacipat”, venne pubblicato dal Giornale della Vela (numero di marzo del 2013, Gianluca lo sventola davanti a me, ndr). Il render girò molto, fu pubblicato anche sul forum di Sailing Anarchy e scatenò un “caso” internazionale…
Cioè?
Successe che qualche mese dopo ci fu un summit di progettisti dell’associazione Class 40 a Parigi. Sul tavolo c’era il render della barca (quello che vedete nell’immagine sopra, ndr). Nessuno sapeva chi avesse realizzato questo progetto, evidentemente giudicato innovativo e in grado di cambiare le regole del gioco della classe. I francesi pensavano lo avessero progettato gli inglesi, gli inglesi viceversa. E invece, sorpresa, lo aveva disegnato uno studente italiano! Quando dissi nello studio di Marc Lombard che era opera mia, quasi non volevano crederci!
Comunque, quel progetto si tradusse nella creazione di una nuova regola nella “box rule” dei Class 40. Ovvero che il baglio, misurato a due metri di distanza dalla prua verso poppa, non deve essere superiore ai 3,15 m. Questo per limitare la corsa ai volumi di prua sempre maggiori che avrebbero avvantaggiato troppo gli scafi di ultima generazione…
Nel frattempo, dopo la laurea triennale, ritorni in Italia…
Si, dopo la laurea (110 e lode, c’è bisogno di dirlo? ndr) feci ritorno all’università ma la mia testa era in Francia. Diedi tutti gli esami della magistrale in un anno invece che in due, riservandomi il secondo anno per fare ricerca al laboratorio dell’Ecole Navale di Nantes…
Cosa avevi in testa, questa volta?
Avevo ripreso in mano degli studi compiuti dal mio amico Lionel Huetz, che si occupa tutt’oggi dell’idrodinamica nello studio Lombard, per la creazione di un sistema VPP (Velocity Prediction Program, ovvero i software di previsione delle performance teoriche di una barca, ndr) evoluto. I sistemi “tradizionali” VPP, quelli utilizzati anche per i sistemi di compenso, ORC, per intenderci, lavorano con tre gradi di libertà: sbandamento, avanzo, deriva.
La sfida era quella di crearne uno molto più “preciso”, che si basasse su sei gradi di libertà, tenendo conto anche di parametri quali rollio, beccheggio e imbardata. Un modello molto più complesso dal punto di vista matematico, ma più efficace soprattutto per le barche plananti, oceaniche e con la prua tonda, dove l’assetto longitudinale della barca è fondamentale. Nel mondo della progettazione nautica il sistema che avevo ideato è già diventato vecchio in quanto “statico”, ma per l’epoca (2015) era piuttosto innovativo. Oggi utilizziamo VPP dinamici, che tengano conto del comportamento della barca con l’onda e con la variabile dei foil
Adesso sì che eri pronto per lavorare nel mondo della vela…
Tra il dire e il fare c’è di mezzo il… destino. Mentre lavoravo al laboratorio di Nantes arrivò un gruppo di investitori che, forse scambiandomi per un tecnico, ci chiesero una valutazione tecnica su un progetto di imbarcazioni da lavoro per trasporto via mare ad alta velocità: l’obiettivo era il risparmio del carburante. L’analisi del progetto inizialmente era stata eseguita con il vecchio metodo fluidodinamico, noi invece lo analizzammo con il CFD (Computational fluid dynamics): il sistema non funzionava. “Ma se volete, ve lo reinvientiamo noi”.
Gli investitori accettarono e fu così che nacque la A2V, società che creai a La Rochelle: il budget era ottimo, guadagnavo il triplo rispetto a un neolaureato, presi un ufficio sopra una fabbrica di mute da surf. Creammo, assieme all’ufficio tecnico di Lombard, un prototipo di catamarano in composito di 11 x 9 m dalla forma particolarissima, frutto di calcoli di aerodinamica stazionale, più che di fluidodinamica. Tutto perfetto? Quasi, c’era un problema matematico da risolvere.
E allora?
Qui entrò in scena quello che è ancora oggi il mio socio e “problem solver” per eccellenza, Fabio D’Angeli. Conoscevo Fabio perché era ricercatore all’Università di Spezia e, in facoltà, era un nome famoso per la sua genialità. All’epoca però lavorava in Scozia, in una veleria.
Lo chiamai, accettò subito di venire a La Rochelle: siccome il problema da risolvere era idrodinamico, trovai a caro prezzo un libro di fluidodinamica sovietico risalente alla Guerra Fredda, relativo agli ekranoplani (velivoli russi fatti per volare sull’acqua, anello di congiunzione tra l’idrovolante e l’aliscafo, ndr). In quel libro c’era la soluzione e Fabio la trovò in meno di un mese.
Brevettammo il progetto: entrando nel campo dell’aerodinamica, con la barca sollevata dal vento apparente, tu puoi renderla più efficiente in termini di carico sopportato. Se in acqua 5 kg di carico generano una resistenza di 1 kg, in aria la stessa resistenza viene generata da 30 kg. Il nostro prototipo era 6 volte più efficiente di una “barca tradizionale”.
Di queste barche da lavoro ne realizzammo due da 12 m, una da 20 e il progetto di un 25 metri: l’idea vincente era stata quella di portare sull’aerodinamica il peso delle barche, sfruttando le carene a step di derivazione motonautica. Riuscii a far vedere il nostro progetto a tutti i grandi nomi della motonautica prima che ci lasciassero: Fabio Buzzi, Franco Harrauer e persino a Renato Sonny Levi.
Ma allora come sei tornato, poi, nel mondo della vela?
Una di queste barche di A2V entrò in funzione in Gabon. Ebbe un problema tecnico e io dovetti volare in Africa per risolverlo. Credevo che le nostre barche avessero avuto un impatto positivo sul trasporto marittimo e sull’ambiente, perché consumavano meno. E invece scoprii che il mondo non funziona così.
Gli aumenti di efficienza tecnica si traducono in un aumento della capacità di inquinamento dell’uomo. Le nostre barche permettavano di andare a cercare il petrolio ancora più all’interno del Gabon, risalendo il fiume. Allora ho detto basta. Già mi ero opposto all’utilizzo della nostra tecnologia per scopi militari. Ma davvero era troppo. Bastava sostituire il petrolio con l’avorio, e mi sembrava di trovarmi in Cuore di Tenebra di Joseph Conrad. Decisi che sarei tornato – o meglio, avrei iniziato per davvero – a progettare barche a vela. Quelle che piacevano a me. E Ambrogio Beccaria, Bogi, fu fondamentale per me.
In che modo?
Sapevo che era arrivato a La Rochelle questo ragazzo italiano che aveva recuperato una Mini scassato in Portogallo e lo aveva rimesso a posto con le sue mani. A La Rochelle dormiva in barca, gli dissi “vieni da me, ho un letto in più”. Venne con il cane e la ragazza. Intuii subito che era un cavallo di razza, un velista fortissimo in grado di scrivere la storia di questo sport. E che sarebbe stata la persona giusta a cui costruire una barca intorno. Ci frequentammo tanto, ebbi modo di conoscere le sue caratteristiche e skills. Ebbi la fortuna di navigare con lui al prologo della Mini Transat (quella del 2019, vinta da Ambrogio, ndr).
Nacque così il Musa 40 AllaGrande?
Mi parlò dei suoi progetti e dei partner in ballo. Inizialmente pensavo di costruire la barca in collaborazione con Lombard ma poi decidemmo di metterci in proprio. Decidemmo, perché la prima cosa che feci fu quella di chiedere a Fabio di seguirmi e lasciare A2V.
AllaGrande, nata da San Giorgio Marine a Genova, è costruita per Bogi ed è basata sulle sue caratteristiche. Capimmo che i Mach 4 (la ormai penultima generazione di Class 40, ndr) erano arrivati al massimo della potenza perché utilizzavano le vecchie forme di poppa. Paradossalmente, per rendere la barca più facile da portare, con una barca dalla prua tonda, è sulla poppa che devi intervenire. Abbiamo lavorato tantissimo in CFD, procedendo “step by step” e chiedendo continui feedback da Ambrogio.
Che soddisfazione vederlo alla Route du Rhum, secondo alla prima regata! Gli altri miei Class 40 sono disegnati a misura di skipper. Quello di Alberto Riva è fatto per navigare più “steccato” di Bolina (a Bogi invece piace navigare più poggiato), quello di Andrea Fornaro è più simile ad AllaGrande. E presto arriverà anche il 40’ per Pietro Luciani.
Hai in mente altri progetti?
Sto lavorando ad alcuni refit di barche da spedizione polare (una è il 28 m Paratì II) e non escludo, in futuro, di occuparmi di one-off.
Il tuo progettista mito?
Herreshoff. Ha inventato tutto.
La barca più bella della storia della vela?
Faccio l’italiano. L’Amerigo Vespucci (ci ho navigato, spettacolo!). E il francese: l’Helium 980, la mia barca. Un 32 piedi dislocante del maestro Jacques Fauroux.
Eugenio Ruocco
- Può interessarti anche: Perché la prua tonda? Intervista a Gianluca Guelfi, Sam Manuard, Oris d’Ubaldo
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2 commenti su “Gianluca Guelfi, il progettista italiano dei Class 40 che vanno più veloci INTERVISTA”
Bellissima intervista
Complimenti!!!!!
The Real Person!
Veramente bell’articolo: descrive una persona intelligente, geniale ma misurato e modesto che ha fatto della sua passione una professione in cui eccelle, veramente invidiabile, con cui andrei volentieri a cena insieme