Vela in Italia vs Vela in Nuova Zelanda. Numeri e considerazioni

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Nuova zelanda vela
Una lezione di vela in Nuova Zelanda. Fonte immagine: https://www.yachtingnz.org.nz/

Vi ricordate del nostro “caso dell’estate”, ovvero quello aperto dalla “ricetta” per moltiplicare i velisti evitando la dispersione giovanile e trasformatosi poi in un vero e proprio processo alla scuola vela e alla sua barca simbolo, l’Optimist, in Italia? Sono arrivati tantissimi vostri contributi, a testimonianza dell’attualità del tema.

Ce ne è uno, in particolare, scritto da Marco Tommasi, presidente della LNI di Cesenatico ed Esperto Velista, istruttore dal 1991 che analizza il tema in profondità e prova a dare una spiegazione sul funzionamento del sistema vela in Italia mettendolo a confronto dettagliato con quello a cui tutti si riferiscono, quello neo-zelandese. Dall’età prescolare al ruolo della scuola e quello dell’istruttore di vela, dal contesto italiano a quello “ideale”. Leggetelo con attenzione, e fateci sapere la vostra opinione. Il processo alla scuola vela continua.


La situazione velica in Italia

di Marco Tommasi*

Ho letto con attenzione il “Caso dell’estate” 2023 pubblicato sul Giornale della Vela, relativo alla dispersione giovanile ed in generale sulle modalità con cui viene affrontata e gestita la vela agonistica e la navigazione a vela in generale in Italia, anche raffrontandola con altri modelli, in relazione ai risultati ma non solo a questo aspetto e solo a questa disciplina, ma si può estendere all’organizzazione sportiva in generale, con una peculiarità che peraltro attiene specificamente alla vela e ad alcune altre pratiche, cioè il poter essere sport inteso come agonismo e competizione, ma anche molto altro, per molti versi completamente differente, e questo aspetto non è mediamente ben compreso e sufficientemente valorizzato.

Spero di poter fornire un contributo sotto forma di dati, esperienze, studi e riflessioni maturate nel corso di ormai 34 anni di attività. Nulla di esaustivo, visto lo spazio disponibile, ma spunti che spero possano essere utili a comprendere le cause del problema. A parte le centinaia di corsi come istruttore, formatore e docente, ho iniziato presto a confrontarmi con altri modelli, ed a chiedermi da cosa dipendessero le grandi differenze che riscontravo sia da un punto di vista dei risultati agonistici, sia – soprattutto – della enorme differenza di approccio culturale nei confronti della navigazione e non solo.


1. Gioco vs agonismo

La specializzazione agonistica precoce e l’abbandono soprattutto nella fascia 14/17 anni sono aspetti noti da molto tempo, ma le varie riforme che si sono succedute non hanno mai toccato (non dico risolto) realmente i nodi del problema, dato che le Agenzie Educative (Famiglia, Scuola, Associazionismo) procedono ognuna per proprio conto senza nessun tipo di reale sinergia e integrazione, e le finalità sono quasi sempre incentrate sull’istruzione e raramente sull’educazione (infatti abbiamo il MIUR).

Sintetizzo all’estremo con un esempio: se uno studente si trova nella condizione di dover scegliere fra dedicare il fine settimana allo studio in vista di un compito in classe o di un’interrogazione il lunedì, ed un allenamento/gara, cosa sceglieranno i genitori, ai quali spetta in ultima istanza la decisione?

  1. Manca l’attività motoria (già nell’ottantaquattro, all’ISEF, la frase chiave era “educazione psicomotoria”, ma ancora oggi si sintetizza con “ginnastica”) nella scuola, manca lo sport come momento formativo, che organizzato all’esterno, finalizzato ai risultati, e chi non li ottiene smette, perché non ci sono alternative, dato che tutto è stato improntato e strutturato per questo obiettivo; chi gareggia sapendo di non poter competere, se l’approccio non è educativo, ma sintetizzato da ordini d’arrivo e classifiche?
  2. Se un genitore che “vuole in figlio campione”, sceglierà l’attività sportiva, entrerà in conflitto con la scuola, se questi non è in grado di soddisfare entrambe le richieste, e anche nel caso dello studioso/sportivo, non terrà conto delle esigenze dettate dall’entrare nella fase più delicata dello sviluppo, obbligandolo a rinunciare ad una vita di relazione al di fuori dei contesti strutturati.
  3. La risultante è che l’adolescente si troverà a vivere – “ben che vada” – in tre contesti separati e impermeabili fra loro, ognuno dei quali basato su procedure, principi, necessità, linguaggi e prassi diversi e spesso antitetici, e nel migliore dei casi riuscirà a trovare la sintesi in autonomia (parziale ripresa della pratica sportiva dopo i 18 anni).

L’ovvia conclusione sarebbe (come avviene nel modello anglosassone) che l’attività fosse praticata all’interno della scuola in maniera integrata, ma da noi il “Professore di Ginnastica” è ancora considerato come una sorta di privilegiato che non deve preparare e correggere compiti e che, nella migliore delle ipotesi, fa giocare a pallavolo mentre legge il giornale.

O in alternativa (ovviamente più complicato, ma non certamente impossibile), che esistesse una sorta di cabina di regia fra i tre soggetti, mentre si discute in astratto di “supporto alla genitorialità” per aiutare le povere famiglie che – curiosamente – non riescono ad avere un ruolo propositivo e positivo nei confronti dei figli e la scuola che procede ad istruire e non a formare i futuri cittadini.

analisi atleti

C’è poi da considerare l’approccio e la preparazione dei tecnici.

Quelle che seguono sono alcune slide prese da un corso di formazione della Scuola dello Sport CONI a cui ho partecipato, riferite a tutte le discipline.

Come si può facilmente arguire, l’incipit formale è di andare oltre la figura del “capo con il fischietto o il pennarello”, che brandisce regolamenti, norme, tattiche alla lavagna, replicando il modello scolastico, e non a caso, tornando all’ambito nautico si parla di “scuole” di vela, mentre nel mondo anglosassone si parla di “club”.

Ma chi edifica e costruisce la vela “come idea (sportiva, educativa, formativa)” in Italia, dato che siamo il paese più monosportivo al mondo, totalmente colonizzato dall’onnipresente metafora calcistica?

La situazione della nautica è paradossale, perché da un lato, nulla potrebbe essere più educante e formativo, ma d’altra parte, difficile trovare un’attività più costosa e quasi interamente a carico delle famiglie, tranne quelle dei “fenomeni”, che poi tali non sono sempre, dato che in trentatré edizioni dei Giochi Olimpici, l’Italia ha portato a casa tre medaglie d’oro, delle quali una nel windsurf, e che nel ranking olimpico siamo al tredicesimo posto, dopo paesi come la già citata Norvegia, la Svezia, la Danimarca, l’Olanda, che dovrebbero avere condizioni meteo e mari un po’ meno favorevoli che alle nostre latitudini e meno risorse da investire.


2. L’organizzazione

Nell’articolo si citano UISP (che comunque in passato ha sottoscritto un protocollo d’intesa con la FIV), CSEN e CVC. In realtà c’è anche la LNI e l’AICS, attivo soprattutto nel settore regate, ed altri EPS sparsi.

Qui c’è uno dei nodi, ovvero ognuno va per proprio conto, mentre i modelli del RYA o di YNZL, dimostrano che un unico Ente che sovrintende le attività, emanando regole e norme valide per tutti, favorisce la crescita ed il costante miglioramento delle performance, ed ognuno si occupa del proprio settore, e il comparto generale cresce.

Sempre molto in sintesi:

  1. Un unico Ente che si occupa di norme, regole, supporti, formazione, brevetti, etc.
  2. Singoli soggetti che si occupano di specifici settori, in sinergia con gli altri (regate, diporto, sicurezza, etc.).
  3. In Italia, allargando lo sguardo, esistono, ad esempio, anche le Scuole Nautiche, per cui abbiamo Circoli FIV che fanno regate e patenti, Sezioni LNI che fanno patenti e affiliandosi alla FIV, anche regate, CVC che procede per proprio conto, come gli EPS, etc. Tutti fanno un po’ di tutto, nessuno fa niente “bene” ed è il solito tutti contro tutti per accaparrarsi fette sempre più esigue di una torta che ormai ha le dimensioni di un bignè (tanto per citare un esempio, le patenti nautiche sono passate in dieci anni da circa 34.000 a poco meno di 10.000).

Restando agli antipodi, prendiamo in esame il confronto con la Nuova Zelanda, che ottiene risultati superiori a quelli italici in tutti i campi (ranking olimpico, America’s Cup, campionati mondiali, etc.,) e arriviamo all’evocata querelle relativa all’Optimist, prendendo in esame solo i dati della FIV, per quanto riguarda l’Italia.

Contronto Nuova Zelanda - Italia sulla vela

Al di là del mero dato numerico, che pure fornisce indicazioni interessanti, dato che si confrontano due paesi, uno dei quali ha un decimo della popolazione dell’altro, un numero molto inferiore di club velici e di praticanti in età giovanile, ma molti più agonisti (43.000 vs 4/6.000), ulteriori dati chiariscono ancora meglio la situazione:

  1. Nel 2019 la percentuale di diportisti tra la popolazione generale in Nuova Zelanda è stimata al 45%, la più alta mai registrata. Il che porta a circa 1.672.920 neozelandesi coinvolti nella nautica da diporto.
  2. Il 18% ha acquisito le proprie conoscenze frequentando corsi di nautica pensati specificatamente per gli adulti.
  3. Il 75% di tutti i velisti ha riferito di aver acquisito le proprie conoscenze sulla nautica da parte dei propri amici e familiari.
  4. Il 10% ha acquisito le proprie conoscenze frequentando corsi di nautica appositamente pensati per la fascia di praticanti in età scolare.

In sintesi, percentuali molto basse di praticanti hanno frequentato corsi, perché esiste un sistema/paese che fornisce una formazione di alto livello, e solo chi è interessato all’agonismo frequenta specifici corsi, dopo aver imparato a navigare.

Come accennavo, il compito dovrebbe essere l’avvicinamento alla navigazione a livello diffuso, stante l’incompetenza media (poi ci torno, dati alla mano) dei diportisti nostrani, e solo in seguito, selezionare chi intende gareggiare.

Si può pensare, però, che in Nuova Zelanda, quelli grandi e grossi giocano a rugby e tutti gli altri vanno in barca, ma non è così, come si può facilmente evincere dalle tabelle che seguono.

La prima è relativa all’attività fisica in generale, la seconda all’attività sportiva regolamentata.

Oppure si può pensare che i Kiwi dedichino molte più risorse alla vela, ma anche qui le cose non stanno così:

budget cifre dati

In dettaglio, 1.765.505 NZD dedicati al programma olimpico e 836.601 NZD al “talent developement”.

Concludiamo questa breve disamina (ma i dati completi sono facilmente reperibili in rete), con la domanda relativa all’Optimist, che come già accennato è poco considerato anche da australiani, britannici, etc. perché i neozelandesi si sono chiesti da cosa dipendesse il loro successo, a fronte di nazioni più grandi, ricche, popolose e hanno identificato proprio nell’Optimist una delle ragioni.

It would appear that New Zealand’s success on the world stage is mainly at the big end of the scale, in other words boats crewed by those whose racing careers started with the P-boat, and where the Opti was just a Learn to Sail boat and not a Learn to Race, or even Serious Racing Boat” (da Sail World).


3. Tutti contro tutti

Come già accennato, ad una sostanziale mancanza di strategie comuni fra le Agenzie educative, va aggiunto il procedere in ordine sparso delle varie strutture citate più sopra.

Ma ancora non basta, perché a differenza della stragrande maggioranza degli altri sport, dove esistono campionati, tornei, competizioni di ogni livello, nel mondo velico, la FIV ha sempre cercato di rappresentare l’intero panorama agonistico, con una visione ulteriormente mono dimensionale.

Così, se esistono campionati amatoriali di calcio, basket, pallavolo, nuoto, etc. organizzati e gestiti dagli EPS, mediamente rivolti ad atleti e società non di “alto” livello (lo Sport per Tutti), in ambito velico è sempre stato messo in atto un modello che ha in qualche modo cercato di far passare il concetto che “la regata” fosse esclusivo appannaggio federale, e i corsi rivolti a bambini e adolescenti fossero solo quelli che avviano alla competizione, con l’ovvio risultato che chi non è interessato/bravo/ricco, non ha nessuna alternativa, una volta che esce dal mondo della competizione, perché è stato indirizzato a concepire la vela unicamente come navigazione più rapida possibile fra un gommone ed una boa e ritorno.

Chi ritorna (ma sono sempre meno) al mondo della nautica, lo fa da adulto, con buone disponibilità economiche, mantenendo una forma mentis legata agli aspetti tecnici e trascurando spesso completamente tutto il resto, senza aver maturato la consapevolezza che la navigazione è tutt’altro rispetto ad una regata su classi olimpiche.

Io stesso ho organizzato un percorso di regate rivolte a istruttori (la Coppa Tattica & Didattica), e mi sono sempre sentito rispondere dagli enti preposti (Capitanerie, comuni, etc.), che “solo la FIV può organizzare regate”.

Ovviamente, nel momento in cui ho chiesto di vedere quale norma impedisse a chiunque di organizzare una competizione, l’interlocutore non è mai stato in grado di trovare nulla che supportasse le sue affermazioni, al che ho sempre dovuto spiegare come funzionavano le cose in realtà.

Non è una questione di cortili & campanili, ma la semplice constatazione che la lettera “O” dei CONI, significhi “Olimpico”, ovvero ciò che attiene alla “preparazione agonistica in chiave di alta prestazione”:

In sostanza, la domanda è semplice; quanti campioni olimpici sono usciti da competizioni di livello mediamente risibile (in chiave di “alta prestazione”) come i Campionati Invernali, tanto per fare un esempio, che dovrebbero essere appannaggio di associazioni che mirano all’aggregazione e non alla prestazione?

Le risorse, pure cospicue, vanno indirizzate laddove è necessario per portare a casa risultati (Olympic Program e Talent Development, come visto sopra nel caso della NZL), ma mentre nei paesi anglosassoni i contributi sono solo in parte statali (e in relazione ai risultati, non al numero di tesserati), in Italia è fondamentale accumulare tessere.


4. Conclusioni che in realtà non lo sono

La disamina non è certamente esaustiva (ho utilizzato i dati completi per strutturare una parte del percorso di equiparazione LNI), ma mi auguro possa integrare quanto scritto nell’articolo.

Rimarrebbe molto da dire, uscendo dal contesto specifico, per entrare in quello generale, comprendente anche patenti nautiche, costi, leggi, normative, etc.

Se può sembrare logico che con cinque ore certificate da una Scuola Nautica un armatore possa prendere una barca di 23.99 mt lft e navigare fino alle Hawaii doppiando Capo Horn (è abilitato alla “navigazione senza limiti”) con un Patentino RTF, significa che nell’immaginario dei diportisti nostrani la navigazione è un concetto molto distante dalla realtà.

E, soprattutto, significa che c’è un sistema-non sistema che lavora per farglielo credere.

Qui mi limito ad un accenno a quanto scritto più sopra relativamente alla condizione dei diportisti nostrani, e lo faccio citando il Rapporto sui sinistri marittimi del MIT che prende in esame il periodo compreso fra il 2010 e il 2019, relativamente alla situazione del diporto nautico in Italia.

“…come già precisato in precedenza, le tipologie di unità navali per le quali è stato riscontrato il maggior numero di bad practices nel decennio 2010-2019 sono le unità da diporto, per le quali si sono riscontrate circa il 40% delle violazioni complessivamente rilevate… sono state emesse raccomandazioni ad hoc intese a migliorare le specifiche normative e/o le procedure operative utilizzate dai conduttori delle navi e dai lavoratori marittimi: ad esempio, una raccomandazione relativa ad una modifica normativa tale da subordinare l’acquisto del natante da diporto alla frequenza di corsi per la sicurezza obbligatori, o di istituire delle visite periodiche più dettagliate anche per le piccole unità da diporto o da pesca, finora con minori controlli rispetto a quelli del naviglio maggiore”.

Bad practices nautiche

Significa che tutto il sistema-paese che si occupa di nautica ha sostanzialmente fallito il proprio compito, non certamente solo chi si occupa di agonismo, perché in realtà non esiste un sistema ma un coacervo di piccole lobby che mirano solo al mantenimento di rendite di posizione, senza rendersi conto che una sinergia ed una seria suddivisione di ruoli con una regia unica finirebbero per favorire tutti.

Un solo esempio; durante il primo incontro per definire in dettaglio la figura dell’Istruttore Professionale di vela, il dirigente del MIT che faceva gli onori di casa, aprì i lavori, affermando testualmente che “di vela non ne sapeva nulla”.

Al termine, ho proposto agli altri partecipanti al tavolo (FIV, CONI, Unasca, Confarca, MM) di aprire un tavolo e elaborare una proposta comune da presentare al MIT.

Ci fu un solo incontro, con FIV e MM, poi più nulla.

Correva l’anno 2018, siamo nel 2023 e dei Decreti Attuativi che dovevano normare la figura dell’IVP ancora nessuna traccia… e direi per fortuna, dato che si tratta di una legge così mal concepita che è meglio rimanga inapplicata.


*Chi è Marco Tommasi

Marco Tommasi racconta il suo curriculum così:

Molto in sintesi, sono istruttore UISP di deriva dal ’91, su cabinati dal ’92, dal ‘98 sono formatore di istruttori e dal ’99 docente di formatori. Ho formato istruttori e collaborato anche con diversi circoli FIV pur non essendo tesserato.

Dal 2015 sono entrato a far parte della LNI, prima come presidente della Sezione di Cesenatico, poi come Esperto Velista e dal 2018 al 2021 come direttore nazionale della formazione, partecipando anche ai lavori relativi alla definizione della figura dell’Istruttore di vela professionale, presso il MIT, assieme al Vice Presidente della FIV, a dirigenti del CONI, della MM, etc. Ho predisposto il sistema di crediti formativi LNI, e organizzato e gestito l’equiparazione di quasi mille istruttori ed Esperti Velisti LNI, in 41 sessioni di equiparazione in tutta Italia.

Prima di dedicarmi alla vela a tempo pieno, durante e dopo gli studi ISEF, ho praticato a livello agonistico diversi sport e successivamente sono stato tecnico federale in tre diverse discipline, allenando sia a livello giovanile che con gli adulti.

Ho iniziato nel ’92 a navigare in Irlanda, Galles e Bretagna, e dal 2005 al 2019 ho organizzato diciotto crociere scuola in queste zone, oltre ad avere navigato nei mesi estivi, nel Canale di S. Giorgio dal ’95 al ’96, con un cabinato di 6.73 del ’67 acquistato in loco.

A latere, sono formatore professionista, formatore BLSD, Primo Intervento Sanitario e Prevenzione in età pediatrica e sono stato per anni responsabile dell’organizzazione dei corsi di marineria storica del Museo della Marineria di Cesenatico, oltre a progettare e organizzare progetti nazionali e regionali ed attività rivolte alle scuole, disabili, disagio adolescenziale, etc., attraverso la vela.

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7 commenti su “Vela in Italia vs Vela in Nuova Zelanda. Numeri e considerazioni”

  1. Complimenti per la chiarezza e per il tentativo di “ smuovere” un ambiente ed una filosofia che come per tanti altri sport o meglio per lo sport in Italia non ne consente lo sviluppo

  2. Vittorio Tolino

    Buongiorno,
    Ho letto con molto interesse le tesi esposte dal sig. TOMMASI,supportate da dati e rilevazioni statistiche comparate con la realtà neozelandese.
    Sono gli stessi argomenti sui quali mi confronto con gli istruttori e presidente del circolo velico al quale sono associato interessandomi della istruzione velica della mia nipotina di otto anni sull’optimist.Rilevo assolutamente corrispondente l’evoluzione sportiva citata dal sig Tommasi univocamente orientata esclusivamente alla conduzione agonistica tra le boe di regata che produce ragazzi incapaci di valutare il
    Il meteo,incapaci di raggiungere veleggiando una qualsiasi località ma
    tediati da interminabili breefing post allenamento.Avrei molto da scrivere ancora e mi piacerebbe molto confrontarmi ancora su questi argomenti.

  3. nel paese del calciopallone non ci si può aspettare nulla di diverso. Come dice bene Marco, il italia lo sport in generale è considerato meno di zero. La scuola in prima file e a seguire tutte le altre istituzioni sono colpevoli di questo.

  4. Oooooh…….. ma siamo su GdV?? Un articolo fatto BENE, che parla di cose concrete e con dovizia, chiamate più spesso questi esperti esterni perchè fanno bene a noi lettori! Mi ero un pò rotto delle solite frasi di circostanza tipo “la barca risponde pronta alle variazioni di vento ed esprime buone doti di velocità e sportività.. carena veloce… buona abitabilità interna…” (roba che si legge sia quando si parla dell’ultimo Bavaria o del NEO per intendersi..).
    Bravi, bell’articolo e che per altro condivido in toto.

  5. Credo che ci siano molte concause in questa pochezza italiana:

    – FIV che sembra più un tesserificio che una promozione della vela (tra l’altro a Genova a domande cortesi non rispondono mai)
    – le nuove generazioni italiane non vanno più neanche in campeggio , troppo faticoso. Figuriamoci in barca a vela. Meglio airbnb, easyjet e via con un motoscafino a noleggio. La dimostrazione è che tutti i cantieri, anche quelli francesi, a fianco delle linea storica di barche a vela, aprono la linea Barche a Motore molto più sicura e redditizia (l’importante è la televisione, il frigobar e l’aria condizionata…sic)
    – regate FIV e ORC che smuovono molto poco. Meglio le UISP cui partecipano il triplo delle imbarcazioni e tanti armatori si divertono con le famiglie anche se ci sono altri che vanno con il coltello tra i denti. Ma c’è spazio per tutti

    Dovessi dire non saprei come smuovere le nuove generazioni verso la vela. L’unica sarebbe di mettere un freno alle motorizzazioni delle barche a motore che oggi sono folli e farle andare a dislocamento per cui diventa più interessante avere una barca a vela che almeno non fa rumore.
    Magari mettendo un limite di 15 hp per tonnellata per qualsiasi naviglio da diporto avremmo meni incidenti e più velisti .

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