Vincenzo Onorato racconta: Auckland 2003. La notte è un sogno di mezza Coppa (America)
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Nel 2003 Vincenzo Onorato è in Nuova Zelanda per la sua prima Coppa America con Mascalzone Latino. In una sera di sconforto, da solo, siede in un piccolo ristorante di Auckland quando incontra il più grande velista della storia, il mito della sua vita. Nasce una notte folle, tra ricordi di regate, di donne, di vita, trasgressioni e tanto, tanto, tanto alcol…
La notte è un sogno di mezza Coppa (America)
di Vincenzo Onorato*
Ok, lo sapevo perfettamente anche da prima di partire, nessun dubbio in proposito, che non avremmo mai vinto la Coppa ma che neppure non saremmo riusciti a vincere una miserabile regata, no, non lo avevo previsto ed era avvilente come l’acqua del cesso che non vuole scendere.
Depresso? Certamente! Lasciai la famiglia, Andrea, mia figlia che dormiva abbracciata a me e l’equipaggio di cui ne avevo sin troppo pieni gli zebedei, frustrati a nanna in albergo.
Dove andare per una cena solitaria a riordinare le idee e cercare di mettere insieme il puzzle assurdo di pensieri colpevoli dell’aver sbagliato quasi tutto se non proprio tutto? “Al Merlot!!”. Piccolo ristorante, in una stretta stradina in pendenza, tutta storta e contorta come i miei pensieri, a due passi dall’albergo dove io ed il mio benedetto team vivevamo.
Merlot è Merlot, nomen omen, il locale gestito da Martin, il proprietario, un “uomo gentile”, come avrebbero detto gli antichi indigeni americani, un uomo diversamente eterosessuale ma con il talento di scegliere e selezionare il vino migliore di Waiheke, un’isola attaccata ad Auckland che sembra l’Elba ma con un vino rosso superiore che niente ha ad invidiare ai migliori toscani.
Merlot, prima di tutto, poi si vede cosa si mangia e vaffanculo la Coppa
e la maledizione del “vizio assurdo” che mi aveva portato lì. “Destroy what you love before what you love destroys you”.
Dopo la prima bottiglia, in attesa della bistecca, mi domandai chi cazzo lo aveva detto: Oscar Wilde? Muhammad Ali? Norman Mailer? Non mi sembrava certamente di averlo proprio pensato io, fin troppo intelligente come pensiero. Il Merlot scorreva nelle mie vene e la preoccupazione della regata del giorno dopo andava magnificamente a fare in culo nella penombra elegante delle luci ondeggianti delle candele.
Tutto diventava più confuso ed io assecondavo il surreale incesto dei pensieri di vela con il conato diafano e prepotente del bere.
Dopo tutto il Merlot era eccellente! Cosa vuoi di più mi dicevo, povero idiota vittima del vizio assurdo della vela assecondato ai confini della follia fino allo spingersi dall’altra parte del mondo per una cazzo di regata che non si poteva poi neppure mai vincere! Una vera idiozia. E poi alla fin fine era e resta ancora semplicemente una regata come un’altra.
Il tutto per una brocca,
neanche bella, che a volerla dire, riempita avrebbe potuto ospitare si e no il vino adatto a stravolgere una novizia, costretta da educanda, ai primi declivi dell’alcol sarebbe, alla fin fine, la novizia, rimasta educanda e non “maleducanda” come avrebbe detto il Principe De Curtis. E chi lo sa? Mah…Ero assorto da questi pensieri quando finalmente mi accorsi di lui.
Nell’angolo più buio e infimo, il più oscuro, esisteva lui,
così monumentale da oscurare la luce delle candele strozzate dal rimbalzo elettrico e indecente delle due bottiglie di vino rosso che si era già bevuto da solo.
Fu un attimo di infinita costernazione reciproca eppure fu lui, proprio lui, a riprendersi per primo e ad apostrofarmi: “V, what a fuck are you doing here?”,“Get drunk! But it is not easy”, risposi d’istinto. Il Merlot, detto fra noi, rimanga in Europa, era già miserabilmente in circolo.
Il Mito velico della mia vita così replicò: “siamo soli, ma…uno più uno fa due e non si è più soli aren’t you agree?”.
“Cazzo, Master”, risposi io, “tu oltre ad essere il velista più grande di tutti i tempi sei pure filosofo?”.
“Il vino è fonte di ispirazione…” rispose muovendo il testone indecifrabile da elefante antico, contenendo il movimento del corpo pachidermico mentre le mani migliori del mondo al timone sollevavano il bicchiere invitandomi inequivocabilmente al suo tavolo.
Bevemmo e ordinammo altro vino, e poi ancora altro vino, mentre si beveva senza continenza alcuna e poi ci raccontammo di regate improbabili combattute l’uno contro l’altro, io miserabile, lui mito, che non erano mai avvenute se non allora, proprio in quegli istanti, nei rigurgiti rossi delle onde del vino rosso, dei bicchieri rossi che apparivano ancora più rossi e che sembravano non placarsi mai, nelle pieghe rosse dei fermenti troppo espressi del vino sempre più rosso ed ora in controllo di noi, dai visi sempre più rossi, perché il vino come onde circoscritte si agitava inquieto dentro di noi.
Eppure alla quinta bottiglia ci incazzammo e litigammo,
come caimani feroci accaniti su di un solo miserabile pezzo di carne sanguinolenta in un ricordo assurdo che era reale solo nei tannini acidi delle nostre meravigliose fantasie. Tutto colpa di una ragazza, ma quale ragazza? Chi ci aveva diviso e inquietato? Chi era? E come si chiamava? E poi, alla fin fine, chi se ne fregava della ragazza!
Che regate!
L’avevo persino battuto al timone, pensate voi, e lui annuì e accettò il verdetto della mia limitata sobrietà comparata alla sua, mi abbracciò e mi disse solenne: “È tempo di festeggiare!”, “Lo stiamo facendo, mi pare…”, risposi nell’incontenibile imbarazzo di un rutto di vino che mi saliva acido, dallo stomaco in delirio, con la bistecca poco mangiata.
“Alla mia base!” urlò perentorio.“Fratello ma c’è il protocollo, non si può, ci sanzionano, o peggio!” dissi in un grammo di lucidità espulsa dall’afflato del rutto incontenibile che aveva raccolto pietosamente i miei pensieri scombinati. “E che me ne fotte a me del protocollo! Andiamo, non si paga, vada a fare in culo anche il ristorante, siamo gli Dei della vela, siamo NOI e solo NOI a cena. Alzati e muoviti!” disse.
E così andammo, ma non prima di aver domato il boa della mia lingua contorta ed aver detto a Martin che sarei passato l’indomani a saldare la cena o meglio il vino.
E così scendemmo verso il porto, barcollanti ma felici,
ricordando nei dettagli regate a cui non avevo mai partecipato e che pure ricordavo perfettamente e correggevo le sue visioni e narrazioni con dettagli imbarazzanti su posti, vento e mare dove non ero mai stato se non nel rigurgito dell’ultimo infinito quanto infimo e traditore ultimo bicchiere, il più traditore.
Parlammo di donne, sirene, mitiche e ormai arrugginite di luoghi assurdi e mai esistiti se non nel mito o nell’ebbrezza del vino, protagoniste di una memoria corrotta dai nostri inconfessabili peccati di altre epoche e vicende, che ci avevano felicemente sedotti e ancora una volta in più sbranati, feroci loro, nella ricerca perpetua, maledizione antica, dei marinai delle acque di Nantucket per poterli divorare come avevano fatto secoli prima di noi senza che riuscissimo ad aver la consapevolezza che eravamo stati da sempre, ormai rassegnati, in loro potere. Sostenemmo il precipizio della strada e il baratro dei pensieri.
Sostenemmo gli stomaci asfissiati ma mai sazi di vino.
Sostenemmo l’incubo della realtà che affiorava maligna nel vino non digerito. Sostenemmo i rimpianti affondati nella considerazione che la storia non si sarebbe mai più ripetuta, soprattutto perché mai esistita, e mai perciò confessata perché inquinata dai nostri peccati dolorosi che maceravano da tempo le nostre coscienze dilaniate, e poi la discesa si contorse in un singulto storto in una salita per poi precipitare giù fino al punto da farci quasi cadere.
Si muoveva, la strada bastarda e nemica, si muoveva ingrata e demoniaca, partecipe maligna dei nostri segreti. Che strano, pensammo all’unisono “il mondo sottosopra!”. Ci aggrappammo ai nostri ricordi veri, frugandoci nell’anima per poterli ritrovare, bollandoli come falsi per poter sopravvivere a noi stessi e, soprattutto, al presente. Sostenemmo questo ed altro e non senza difficoltà raggiungemmo la sua base e il Maestro si fermò solenne nella sua altezza e massa fisica incomparabile.
“Ti porto a vedere la mia barca”. Sussurrai “ma non si può”.
Lui replicò: “ancora!?” E la strada sussultò in un “flatus ventris” che ricordò ai fantasmi presenti ma pretenziosi il tuono dei cannoni dei galeoni inglesi all’arrembaggio della baia deserta cento anni prima quando il mondo era ancora privo di colore, uno sforzo come quello del Maestro assolutamente inutile ma formidabile e liberatorio, così impetuoso che sconvolse la ragione e ci precipitò nell’immanenza insopportabile del presente.
E provai a respirare senza disgusto ma con compiacenza, entrammo nel capannone e vidi la sua barca con il panico di chi vede per la prima volta la Pietà di Michelangelo. “Impara, fratello” disse solenne in un rigurgito alcolico, “stretta, lunga e veloce”. “Questi coglioni non la sanno portare ma le prossime barche di Coppa saranno tutte come la mia, io sono arrivato primo, ed ora si beve!!!”.“Beve?” sussurrai con un filo di voce raccogliendo le ultime risorse. “Su nel mio ufficio, roba da marinai, non dell’acqua fresca come al Merlot!”.
L’invito non ammetteva discussioni e così salimmo in alto nel suo ufficio, dove il Maestro in controllo e con assoluta convinzione aprì una bottiglia intonsa di bourbon.
Mi tese un bicchiere da taverna e lo riempì fino all’orlo.
“Posso avere un po’ d’acqua…” sussurrai. “L’acqua è per le donne replicò accidioso. E così bevemmo, la prima bottiglia, e poi la seconda, e così bevemmo e bevemmo poi bevemmo ancora e mi raccontò quello che nessuno aveva mai saputo delle Coppe Americhe passate, ma che io dimenticai subito alla ricerca di eventuali sedimenti nel bicchiere che poi disgraziatamente non c’erano e seppure li vidi in forme strane, che forse un alchimista avrebbe saputo decifrare come la scoperta escatologica delle tavole ritrovate, nel miracolo del bourbon, del Profeta Anania, mai lette a memoria d’uomo, ma subito smarrite nel precario equilibrio della mano che teneva il bicchiere.
Tutto questo con i nostri pensieri confusi andò distrutto nel fondo della bottiglia. Che peccato non poterle ricordare, ma si sa l’alcol cancella le verità difficili ed anche quelle più banali nella pietà del sollievo dei peccati più imperdonabili che aiuta a cancellare purtroppo pietosamente solo in quel solo momento.
Il Viaduct sottostante era ancora popolato di viandanti alla ricerca,
negli shop delle basi ancora aperti, dell’ultimo souvenir della Coppa.Allora, come forse aveva predetto Anania tremila anni prima, avvenne un evento straordinario. La leggenda sostiene che in una notte serena, priva di nubi, in un cielo lucente di stelle arcane, violente quanto improbabili, piovve prima del fato e della preveggenza dei miracoli. Si fermarono i venti e le onde del mare sempre tumultuoso a quelle latitudini si placarono.
La verde Nuova Zelanda non perse il suo colore ma le foglie si intristirono nell’immobilità dell’ansia del declivio solenne che si annunciava dal cielo e seccarono morte dal dolore. I gabbiani del porto continuarono a sussultare, ma in silenzio, come frustrati da uno spavento imprevedibile che pur doveva arrivare per certo ed era nell’aria pesante e irrespirabile.
Le voci delle strade si placarono all’unisono, spente dal lamento inaudibile di Anania che sussurrava alle pietre di digrignare i denti fra loro se mai li avessero avuti e sputare fuori il residuo umido delle epoche passate e mai sopportate, allora o mai più, quello era il momento, altro sarebbe presto arrivato a cancellarle!
Le infinite capre della nazione attonita si misero a girare in tondo come in una giostra urlando che avevano bisogno di masticare foglie di cannabis per potersi placare e tornare a dormire nell’imminente silenzio della notte arcana. Le nuvole si accorsero di essere costrette loro malgrado a sparire, semplicemente perché la notte era inequivocabilmente serena, inconsapevole quanto provocatoriamente innocente, provocante, sensuale e mortalmente estranea a quanto stava per accadere, ma puzzava, nella sua incommensurabile grandezza di fogna da venire, tale era la merda suscitata dai nostri pensieri.
E fu allora che i passanti furono investiti da una pioggia di gocce ambrate, invecchiate in botti di rovere, ricche di tannini morbidi e gustosi che i più lessero come un segno,
una premonizione nefasta o forse luminosa del cielo, che i neozelandesi avrebbero perso la Coppa ed altri, più pietosi e semplici, noi di Mascalzone Latino, alla fin fine avremmo vinto almeno una regata.
Pioggia d’oro zecchino e cristallina, il miracolo di una predizione antica che si palesava agli occhi dei sottostanti, pregni di meraviglia, gocce calde come l’angoscia e carnali come l’amore terreno, sensuali, dall’acido odore della sabbia cotta al sole del mare, esplicite quanto eterne e irripetibili, tutto il creato in un’umidità indecente, tutto fuorché la minestra inconcepibile della nostra urina incontenibile e finalmente palesata, miseramente esplosa fuori il balcone dopo aver cercato pietosamente quanto inutilmente un bagno. “Benedizione laica ma efficace” sentenziò il vecchio leone soddisfatto e aggiunse: “fortunati i Benedetti, saranno grandi velisti”.
E il cielo si commosse per quell’evento eccezionale, s’incontrassero le nubi e la luna si intimidì e nascose la vergogna dei suoi sterili crateri nella decenza di una nuvola pietosa quanto improvvisa. Tutti tacquero nell’intero universo e le capre belarono silenziose e vergognose della loro improvvisa emozione.
Non si vedeva, e non si sarebbe mai più visto, un accadimento così dai tempi dell’elezione di Nixon alla Casa Bianca.
*Chi è Vincenzo Onorato
Vincenzo Onorato (Napoli 1957) è uno dei grandi armatori e veilisti italiani. Con il suo team Mascalzone Latino, fondato nel 1993, ha al suo attivo due partecipazioni alla Coppa America, Nel 2002 ottiene solo una vittoria. Nel 2007 si mostra più competitiva, restando in corsa a lungo per le semifinali.
Leggi i racconti che Vincenzo Onorato ha scritto per il Giornale della Vela:
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