Che cos’è una tempesta? La testimonianza (da brividi) di Vincenzo Onorato
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Lo struggente racconto da bordo di uno Swan 59 investito dalla tempesta annunciata nel Golfo del Leone. La barca salva l’equipaggio ma paga il prezzo della distruzione. Vincenzo Onorato c’era, nel novembre del 1995 quando le barche in regata furono investite da una delle tempeste più terribili nella storia del Mediterraneo. La tempesta che costò la vita a sei uomini dell’equipaggio del Parsifal
Che cos’è una tempesta?
di Vincenzo Onorato*
C’era il bollettino francese che eruttava ciclone o forse meno…eppure a Sanremo c’era calma piatta e troppo sole a friggere il mare con l’impietosità di un pentimento preventivo quanto fetido e impestato dal lezzo di una trappola estrema.
Tempesta? E cos’è una tempesta? Nel sole azzurro pallido di un novembre ancora non imbiancato, che ci faceva girare in banchina con t-shirt da giugno inoltrato e persino sudare con voluttà perché non era stagione da sudare, il vaticinio appariva assurdo. E poi c’era la regata, dove il demone aveva investito tutte le sue malizie. L’uomo è pari a Dio, senza ovviamente lasciare spazio all’idea che il mare è certamente di Dio e di Dio è, forse, anche se minimamente, l’uomo se sceglie di esserlo, che si inginocchia difronte alla propria limitatezza e volge gli occhi al cielo in cerca di aiuto e ispirazione.
Comunque alla fine si partì, parlando della tempesta in arrivo con un genoa light a prua che sembrava contraddire ogni previsione più nera, e servire fedelmente il demone della regata condito dal veleno dello stesso nostro scetticismo. Si parlò di chiudere la rotta sotto Tolone e porgere l’inchino dovuto al Leone e al suo maestrale, bestia furibonda predetta dal meteo. Eppure il comitato, incurante, ci aveva fatto partire, nell’agnostica indifferenza francese tutte le barche andavano per rotta senza piegarsi al fato. E noi no? Dovevamo essere i più prudenti e sfigati? Noi, proprio noi, un equipaggio navigato con una delle migliori barche della flotta, uno Swan 59?
La seduzione del demone della regata pose a noi tutti una domanda per suscitare il nostro orgoglio irrefrenabile: “Che cos’è una tempesta?”. Quaranta, cinquanta nodi di vento e noi rispondemmo all’unisono come attratti da un richiamo antico e mai risolto nella tentazione della sfida: già visto! È così tirammo dritto, forti, pieni di noi, orgogliosi della scelta, volutamente consapevoli del nostro destino ma soprattutto ubriachi di noi stessi.
Eppure un tarlo parassita divorava la nostra anima più del nostro ego: e la tempesta? E se fosse realmente in arrivo? Ma il tempo era bellissimo e il tramonto struggente sulla nostra prua irradiata dal sole morente e guidata da menti sconvolte dal peccato del nostro ego irrefrenabile. L’orrore è sempre in agguato nella vita degli uomini e si fa precedere da una tranquillizzante calma piatta. E di notte esplose il maestrale. Prima infido e tranquillo, 15-20 nodi, contenibili, confortanti per poi salire fino a 50 nodi e piegare il nostro orgoglio tronfio di peccato. Avevamo ammainato la randa e procedevamo con la tormentina che aveva sostituito, senza compromessi e consapevolezza, il genoa light.
Poi il maestrale montò irrefrenabile e feroce, 50/60 nodi di vento e le onde si alzarono e crebbero impietose contro di noi. L’aria attorno a noi si nebulizzò come un sudario d’acqua a tumulare le nostre colpe. Rispondemmo alla tempesta con la professionalità acquisita in tanti anni di mare: stendemmo una “life – line” poppa – prua, un cavo d’acciaio a cui imbracarsi con una cintura e due moschettoni che assicuravano la gente in coperta. Due sopra e gli altri sotto nella dinette dove tutto era sconvolto: il genoa light a ingombrare l’ambiente e la forma di parmigiano portata con veneranda cura per sostenere l’equipaggio distrutta e spalmata sulle paratie come una crema frullata dalle rollate e resa acida dal vomito.
Io non avevo mai sofferto il mare e sfottevo i cosiddetti “vuommaca mare”
(slang ponzese per definire chi soffre il mare…), ero imbragato con una cinghia al tavolo da carteggio cercando disperatamente di fare con il Loran, al tempo non esisteva il GPS, il punto nave per poi riportarlo sulla carta. Venne il dottore sconvolto che si aggrappò al tavolo da carteggio e urlò: “Siete tutti pazzi! Moriremo!”. Ed io risposi, senza non prima avere guardato il true wind speed che segnava 75 nodi di vento: “Nooo, quando segna così forte passa in fretta!”. E poi vomitò sul tavolo da carteggio, sulla carta nautica, la mia cerata e la mia faccia. D’istinto pulii la carta con la mano destra per salvarla dall’ acido infinito ma l’effluvio gastrico risultò per me fatale.
Prima che la barca si rovesciasse scuffiò il mio stomaco: mi staccai dalla cintura di sicurezza che mi teneva ancorato al carteggio e mi precipitai all’aperto. Implorai a Marco di tenermi per i pantaloni e mi sporsi per rigettare la mia anima sottobordo incurante dell’impeto del ciclone. Poi precipitai sottocoperta per continuare a vomitare prostrato nella dinette già colma di umori e della mia frustrazione. Poi la barca si coricò più volte e offrì il fianco alle onde. D’abbasso tutto volò in ogni dove e poi ancora, dopo la notte, arrivò l’alba, dalle dita rosate, ad aprirci gli occhi all’inferno che ci attendeva.
Cercammo di riprendere le nostre forze e ragionare: prima risposta doveva essere alleggerire la barca. Cominciammo a svuotare i serbatoi e gettare in mare tutto ciò che potevamo per farla galleggiare. Vele, viveri, tutto, persino le pentole e gli effetti personali e poi stremati tornammo a vomitare cercando di stabilire guardie di due uomini attaccati alla life-line per governare la barca e tenerla in poppa alla tempesta.
Ci illudemmo, si ci illudemmo, di aver ripreso il controllo della situazione
ma poi venne il tramonto livido e gelato con il vento che non accennava a scendere mentre le onde crescevano impietose a far scorgere ai nostri occhi attoniti come è fatto l’abisso dell’inferno, dove non c’era fuoco ma acqua, e ancora acqua, a fustigare le nostre menti ormai già sconvolte. Scese la notte, la seconda, e il vento aumentò ancora oltre l’inimmaginabile, il possibile e il senso del destino. Fuori coperta Daniele, grande marinaio, era al timone e Alessandro, un ragazzo elbano grande e grosso, in pozzetto.
Noi eravamo sottocoperta, all’improvviso la barca si sollevò, come fluttuante nell’aria incerta quanto violenta, per poi precipitare in un abisso e piegarsi, rovesciarsi sottosopra. I paglioli volarono in cielo e dall’osteriggio sopra la dinette esplose dal suo perimetro di un metro quadrato un’alta fontana d’acqua. Non avemmo il tempo di essere atterriti. Noi schiacciati sotto il cielo della dinette sanguinavamo a causa dei paglioli che ci erano precipitati addosso. Non ci accorgemmo che la barca pietosa e superba, più forte di noi, si raddrizzò sino a quando i pesanti paglioli di legno non ci riprecipitarono di nuovo addosso a martoriarci.
Ma durò poco: sembrammo per un attimo stabilizzati fino a che non provammo di nuovo con orrore quel senso di vuoto e di salita che precedeva il precipizio ma questa volta sembrò infilarsi dritta di prua nell’abisso
e…scuffiò, si, scuffiò di prua e poi, poi , poi si torse su se stessa come una balena ferita e si piegò ancora,
precipitammo di nuovo e ci rovesciammo; e ancora l’osteriggio ci innaffiò di una fontana quadrata e perimetrale d’acqua e nell’orrore i paglioli ci colpirono ancora impietosi, facendoci volare ovunque senza più, nel terrore, percepire le ferite e il dolore. E nuovamente la barca volle salvarci raddrizzandosi, ci sembrò di respirare fino a quando udimmo, nell’urlo del vento e delle onde, un grido che nulla aveva di umano scendere dalla coperta. Era Daniele, come un rombo di tuono: “Venite fuori, in nome di Dio, Alessandro è volato fuori bordo!”, “Fuori bordo!”, “Fuori bordo!”, “Fuori bordo!”. Un eco sconvolto ancora indelebile nella nostra memoria.
E così ci precipitammo fuori, incuranti del pericolo ed io già mi vedevo a dover spiegare ai suoi genitori l’aver perso loro figlio in mare. Certamente era il pensiero di tutti e perciò uscimmo fuori, senza legarci, senza curarci di niente, se non della disperazione che più del vento e delle onde sconvolgeva le nostre anime perdute.
E vedemmo le stelle luminescenti del maestrale che annunciano sempre la morte con l’ironia di una bellezza superba. Vedemmo le onde impietose che comparate alle crocette del nostro albero erano 14-15 metri in cresta e che oscuravano la poppa, dal passo corto e crudele, montagne d’acqua che si inseguivano l’un l’altra senza darci tregua. La barca si era rovesciata e i moschettoni che tenevano Alessandro ancorato alla life – line si erano aperti come burro dal peso dei cento chili del ragazzo. Provammo ad accendere il motore, e si accese, poi un’onda ci coprì facendoci pensare che fossimo affondati. Poi la barca risorse dall’ abissò in cui era precipitata ma fu un attimo e ripiombammo in apnea coperti da una montagna d’acqua. Risorgemmo ancora nella follia del delirio di non voler perdere Alessandro e girammo la barca offrendo la prua al mare nell’affanno della disperazione.
Il resto è un atto di Dio anche a chi non crede ai miracoli ed è questa una manifesta provocazione per gli atei e gli agnostici.
Alessandro, da provetto nuotatore, si era liberato della cerata e malgrado avesse un braccio fratturato, aveva acceso una lampada che teneva nella giacca. Risalimmo il vento per volontà di Dio e dopo un paio di tentativi Marco, Roberto ed io lo recuperammo a bordo. Le sue condizioni erano disperate e dovevamo prestargli soccorsi. Alessandro aveva il braccio e la spalla fratturati e sanguinava copiosamente. Cercammo di fare un punto nave, senza avere alcuna certezza. Dovevamo essere sopravvento a Mahon da qualche parte…forse…Rimetterci di bolina aveva esaurito le ultime energie della barca e non avevamo più motore ed elettricità, tutto era rotto tranne l’albero che troneggiava ancora oscillante fra le onde e il cielo come un pendolo impazzito. E si ripresentò l’alba, dita rosate, a ricordarci che malgrado tutto eravamo ancora vivi.
Contattammo con il VHF portatile il porto di Mahon che ci mandò una motovedetta a scortarci per l’atterraggio nel fiordo sopravvento dove onde altissime si infrangevano nell’urlo della tempesta e dove ci saremmo inevitabilmente infranti nell’assenza di un traguardo certo. Manovrammo, senza motore o vele ma solo con la scienza della disperazione ed una ambulanza accolse Alessandro. Lasciammo la barca senza ringraziarla e ci rifuggiamo nell’albergo più vicino.
Dormii di un sonno senza sogni e senza doccia.
La mattina dopo ci ritrovammo tutti per la colazione. Io orinavo sangue, probabilmente a causa di tutti i colpi che avevo preso sottocoperta. Qualcuno mi chiese se avessimo continuato la regata. Io non risposi, comunque sembravamo non esserci accorti di quanto era accaduto. Ci recammo all’ospedale per sapere come stava Alessandro e ci rassicurarono sulle sue condizioni. Scendemmo in porto per mettere a posto la barca. C’era sempre tanto vento e la barca era ormeggiata all’inglese alla banchina dove eravamo approdati meno di ventiquattro ore prima.
Vedemmo il cielo limpido e piccole nuvole correre verso ponente, vedemmo il sole accecarci come un insulto insopportabile a ricordarci la nostra presunzione, vedemmo i contorni innocenti del canale osservarci indifferenti, vedemmo la polvere pietosa sollevata dal vento a cercare di nasconderci l’orrore, sentimmo il silenzio assordante della morte avvolgerci sino a mozzarci il respiro, vedemmo le case del fiordo precipitarci addosso
un attimo prima che vedessimo i corpi dei ragazzi del Parsifal imbustati sul molo reso livido dalla nostra incredulità.
E allora scorgemmo il fondo dell’inferno, peggiore del caos d’acqua e vento della tempesta, perché silenzioso e definitivo, dove non c’è più niente da dire o da fare ma solo aspettare che quell’immagine macerasse nel cuore nei decenni futuri a tormentare le nostre anime. Tutto era immobile come in una fotografia e il tempo sembrava aver interrotto il suo corso.
Sentivamo il nostro respiro scendere a raggelarci le ossa. Incapaci di alcuna reazione in silenzio ci recammo a bordo della nostra barca. E, senza alcun ordine, in silenzio, cominciammo istintivamente a lavarla come a dare un minimo senso di realtà a quell’incubo a cui non volevamo credere. La barca ci aveva salvati ma aveva pagato il prezzo estremo dell’essere distrutta e l’acqua, dalla coperta, scendeva dabbasso come il dolore nei nostri cuori; improvvisamente, in silenzio e senza dirci niente, ci mettemmo tutti a piangere nello stesso momento, senza guardarci negli occhi. Un ricordo che ci perseguiterà per tutta la vita e forse, o probabilmente, oltre la morte, se la morte esiste realmente.
*Chi è Vincenzo Onorato
Vincenzo Onorato (Napoli 1957) è uno dei grandi armatori e veilisti italiani. Con il suo team Mascalzone Latino, fondato nel 1993, ha al suo attivo due partecipazioni alla Coppa America, Nel 2002 ottiene solo una vittoria. Nel 2007 si mostra più competitiva, restando in corsa a lungo per le semifinali.
Nella sua lunga carriera ha vinto di tutto, su tutto. Farr 40, Cookson 50, Melges, IMS, Mumm 30, Ha iniziato a navigare sulla barca di famiglia, l’Alcyon, il cutter con fiocco bomato del padre Achille, fondatore dell’omonima Compagnia di Navigazione. La sua barca preferita è il “vecchio” Swan 65 Mascalzone Latino XIV con cui vive lunghi periodi girando il Mediterraneo e andando a pesca, l’altra sua grande passione oltre alla vela. E’ il vincitore del Velista dell’Anno Epic alla carriera 2023 al Velista dell’Anno
Leggi i racconti che Vincenzo Onorato ha scritto per il Giornale della Vela:
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15 commenti su “Che cos’è una tempesta? La testimonianza (da brividi) di Vincenzo Onorato”
So bene cosa è una tempesta ero alla Admiral cup del 1979 quel giorno sono veramente stato sul punto di lasciare per sempre la vela. Menomale che non l’ho fatto
Grandissimo articolo
Grazie davvero per questa testimonianza. Per ricordarci sul serio che andar per mare è anche … molto rischioso.
Devono essere stati momenti di sconforto,frustrazione,paura di non farcela,impotenti di fronte a tanta maestosità e furia della natura.
Ricordo questo racconto da brivido, ascoltato direttamente da Vincenzo, poco dopo l’avvenimento degli eventi. Grande Vincenzo. – (Giovanni Pellizza)
Quel giorno lo ricordo bene, mio padre faceva parte di un altro equipaggio, quello dell’Ornella terza, le notizie che ci arrivavano a casa erano a dir poco terribili, ho ringraziato il cielo nel saperli sani e salvi, ed il dispiacere che dei giovani velisti non ce l’avevano fatta mi accompagna ancora adesso.
È con profonda gratitudine ringrazio chi ricorda quel tragico evento !
In memoria di mio padre
Antonella Gregoris
A me, non piace Onorato. Inutilmente stucchevole, fa passare il fatto in secondo piano al suo protagonismo e la voglia al lettore di leggerlo. Anche meno.
Sono d’accordo con te. Forse perché tutto deve essere condito con troppi orpelli narrativi per soddisfare le menti assetate di tragedie oltre a fatto che avere culo non significa darne merito ad alcun dio o divinità.
Che Onorato sia un grande velista e appassionato di mare non ci piove. Che sia un imprenditore della navigazione con parecchio pelo e spregiudicatezza mi pare confermato da molti fatti. Ma che il suo racconto di una tragica quanto incredibile vicenda sia commentato cosí, dimostra che chi ha scritto é solo un miserabile forse anche parecchio invidioso
Quel giorno e quella notte nel golfo del leone c’ero anche io. Ero a bordo di uno sciarelli di 15 MT. Il Gaya. con la sola tormentina andavamo a 11 nodi di velocità. Anche noi abbiamo riparato a Mahon per la rottura della ruota del timone e proseguito con la barra di emergenza. Confermo tutte le situazioni descritte da Onorato ed il suo equipaggio. Conosco personalmente quel Francesco che quella notte e’ caduto in mare. Marco Pascucci.
Episodio di vita vera narrato con maestria, come fosse la penna di un grande romanziere, e dando il dovuto e giusto rilievo alla volontà del Signore, perché, checché ne dicano i chiacchieroni, nulla avviene senza il Suo consenso. Grande Onorato!
Non capisco il senso di sfidare la sorte in questo modo. Se la tempesta era prevista si sta a casa. Questa smania di onnipotenza ad alcuni è costata la vita e tutti i partecipanti ne sono moralmente responsabili.
Per me il senso è proprio di far capire come la smania di onnipotenza (ubris) porti al disastro. Un racconto anche per me un po’ troppo pieno di orpelli, ma a fin di bene, perché chi legge ricordi, prima di sfidare il mare.
Racconto immenso. Graziemille
Ha ragione Piero Ottone quando nel suo libro sulla filosofia di vela, descrive il rituale dopo una traversata: saluta il mare e ringrazia di avergli risparmiato la vita