Vivere e morire a Bora Bora. Il racconto (vero) di Vincenzo Onorato
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Un incontro inaspettato nel paradiso dei marinai, la Polinesia francese. Vincenzo Onorato (che ha scritto di questo incontro, realmente avvenuto, per il Giornale della Vela) e Pierre, il grande navigatore senza cognome compagno di Tabarly. Un dialogo sull’essenza della vela, della vita, della morte. In spiaggia, mentre scorrono fiumi di rum…
Vivere e morire a Bora Bora
di Vincenzo Onorato* / illustrazioni di Luca Tagliafico
C’era una volta un piccolo magnifico atollo di fronte a Bora Bora dove capitai per caso nel mio essere un marinaio peregrino. Era un giorno ventoso e caldo ma laggiù tutti i giorni sono ventosi e caldi. L’anello di palme e sabbia rifletteva la fantasia di Dio nella creazione, dove la bellezza è riflessa dall’assenza d’invasivi insediamenti umani e rivela tutto il creato: luce e mare trasparente, non l’essenza del Paradiso Dantesco, o forse si, dove tutto è luci e melodie concentriche e delicatamente assolute, ma certamente quello di Ulisse e anche il mio immerso nell’incertezza incomprensibile e inesplorata degli oceani. Le birre calde e la barca del pescatore che mi aveva portato lì erano sparite, o forse no, ma ciò per me, in quel momento, non aveva più alcuna importanza.
Attraversai la piccola isola verso la spiaggia sottovento e la poesia svanì all’improvviso nel paradossale: sulla sabbia dorata del bagnasciuga, un catamarano, una sorta di piccolo F40, languiva placidamente fra le piccole onde che si infrangevano sulla riva. Al mio sguardo attonito appariva il surreale: cosa ci faceva lì quella barca? Non ebbi tempo di pensare. Da dietro le spalle udii una voce lontana, un respiro agitato, denso di corrosa ironia: “ti piace il mio piccolo giocattolo?”.
L’inglese strascicato tradiva lo spiccato accento francese. Mi voltai, un uomo magro, con una maglietta sdrucita, la barba lunga e gli occhi chiari, i capelli radi e arruffati dalla salsedine, mi guardava divertito. Avrà avuto all’incirca sessant’anni o forse semplicemente portava male la sua età, stringeva fra le mani una bottiglia di liquore e un sigaro.
Sedeva sulla sabbia con la schiena contro una palma e sorrideva. Non mi lasciai sorprendere e risposi convinto: “molto e soprattutto perché improbabile qui”.
L’uomo cambiò espressione del volto e mi guardò stupito: “perché mai?”
“Non mi sembra affatto una barca tipica della Polinesia Francese” risposi avvicinandomi a lui. L’uomo scosse la testa: “l’uomo e la sua Merda sono i soli prodotti tipici di tutto il pianeta” e dopo aver bevuto un sorso dalla sua bottiglia e tirato una boccata dal sigaro, aggiunse: “purtroppo”.
“Hai voglia di fare un giro?”. Risposi affermativamente con un cenno del capo.
L’uomo si alzò in piedi “venti dollari e affare fatto”.
“Ok“ risposi. “Ti porto a vedere questo mare. Sei mai salito su una barca a vela?”.
“Qualche volta …”.
“Si paga in anticipo, non è per sfiducia ma magari ti caghi nei pantaloni dalla paura, il mio giocattolo va veloce e dopo non puoi pagarmi”.
“Io mi chiamo Vincenzo”.
“Ed io Pierre”.
Spingemmo il catamarano in acqua e prendemmo il largo.
Il vento soffiava più forte nel primo pomeriggio assolato e la barca procedeva spedita con lo scafo di sopravvento sollevato sulla superficie del mare.
Pierre si accorse che sapevo dove mettere le mani e senza dirmi niente mi lasciò il timone. Navigammo lungo il reef sottovento dove l’acqua è sempre quasi piatta accompagnati da un branco di piccoli delfini di quelli che a Trieste chiamano “stenelle”, che prese a nuotare sotto gli scafi. Potevi guardarli negli occhi e mi sembrarono stessero sorridendo…il tempo volò nella luce accecante sul turchese e smeraldo del mare, e gli sbuffi dei delfini che ci bagnavano più degli schizzi degli scafi, più che sputi sembrava che ci benedicessero per esaltare e renderci consci dell’immortalità del momento; sarebbe stato soltanto quella volta, quel momento, null’altro e mai più.
Tornammo alla spiaggia che il cielo si era già colorato di un rosso fiammeggiante.
Eravamo stati per tutto il tempo della navigazione in silenzio.
Le prime parole che Pierre pronunciò furono: “ti sei divertito, allora?”.
“Certamente!” risposi “e me lo domandi pure?”.
“Allora mi offri anche una birra, ti ho chiesto troppo poco per una esperienza come questa, non trovi?”.
“Onesto!” risposi e tornammo insieme a Bora Bora sulla sua barca di legno a chiglia piatta dotata di un vecchio fuoribordo Evinrude degli anni sessanta.
Il bar sulla riva dei pescatori dove approdammo era semplicemente un chiosco con cinque tavolini di legno e delle sedie impagliate diversamente solide.
Pierre ordinò due boccali di birra alla spina che un indigeno con addosso soltanto un pantaloncino lurido ci servì subito.
“Il paradiso è una birra gelata dopo una giornata di mare” disse Pierre tracannandola d’un sorso e ordinando un altro giro al cameriere: “questa volta è il mio turno”.
“Avevamo detto che le birre sono a mio carico, ci penso io” risposi e aggiunsi: “sei francese ovviamente”. Lui alzò gli occhi dal secondo boccale: “no, sbagliato bretone!”.
Io risi, “hai risposto come avrei risposto io: non sono italiano ma napoletano!”.
“Algerino? Napoletano? È la stessa cosa…” Un piè noir . “Quasi…” risposi. “Mi chiamo Vincenzo Onorato”. “Laggiù al Sud Italia siamo tutti mezzi neri”.
“E io Pierre ma te l’ho già detto…”. “Pierre come?” aggiunsi incuriosito.
“Pierre e basta…” rispose infastidito voltandosi indietro in un istintivo scatto nervoso, poi evidentemente si accorse di essere stato eccessivamente sgarbato e aggiunse: “qui i cognomi non esistono…un orpello inutile e ciò che è inutile alla fin fine diventa con il tempo pericoloso come un cancro preso alla nascita che ti porta lentamente alla morte se non te ne liberi, ma non è facile”.
“Vieni” mi disse “sei stato gentile, sei a cena da me, tanto sei solo e l’ho capito, i cani randagi si riconoscono d’istinto e tu non hai neppure la rabbia come me”. Lo seguii, l’alternativa sarebbe stata la tristezza di una cena solitaria in albergo alla caccia dell’ultimo sfortunato ed eccessivo bicchiere di vino o di una turista americana più annoiata di me.
La casa di Pierre era poco più in là, pochi mattoni sulla spiaggia. Tre ragazze erano intente a cucinare del pesce su una griglia improvvisata su un mezzo fusto d’olio vuoto ma all’occasione riempito di legna. Pierre entrò in casa, senza dire una parola, e ne uscì poco dopo con un secchio di latta pieno di ghiaccio e bottiglie di birra. Il muro della casa che confinava con la spiaggia sembrava sorretto da una palma storta almeno quanto i miei pensieri, ma ancora in grado di sorreggere un tavolo di legno che sembrava arpionato al suo fusto da tempi troppo lontani per poterli ricordare a memoria umana.
Non c’erano sedie diverse da altri fusti d’olio arrugginiti dove sedersi. Pierre urlò qualcosa alle ragazze indigene in francese, ma io non capii. Loro si mossero scomposte ed io, per la prima volta, le guardai con attenzione: erano moto giovani, scalze e poco vestite, di una bellezza ambrata difficile da immaginare se non si ha la fortuna di poterla ammirare da vicino. Pierre sembrava il loro Salomone assolato, senza reggia ne corona ed io non sapevo cosa dire. Aprì delle bottiglie e me ne porse una. Rimasi in silenzio per non cadere nella finzione di una conversazione avviata semplicemente per evitare l’equivoco imbarazzo del silenzio.
Finimmo un paio di birre, le ragazze ci servirono del pesce e cenammo insieme a loro. Tutti sotto la palma, seduti sui vecchi fusti d’olio, con le tre ragazze che divoravano il pesce come noi con le mani, ridevano e parlavano fra loro senza badarci. Alla fin fin fine andava bene così, il tutto poi non aveva un gran senso e il tramonto era così struggente da far apparire la mancanza di conversazione come una benedizione.
Finito il pesce Pierre si alzò, senza dire una parola, entrò in casa e ritornò con due sigari, una bottiglia di rum dall’etichetta viola sdrucita e due bicchieri luridi di incrostazioni che riempì all’istante.
“Tu sei un marinaio“ mi disse e aggiunse: “hai una moglie?”.
Io risposi nella sincerità dell’istinto: “e quaggiù chi se lo ricorda…”.
Pierre rise, già bevuto come me, “donne come trappole”.
“Tu sei un marinaio?” ripetè con più insistenza.
“Da sempre…” risposi.
Pierre si riempì di nuovo il bicchiere di rum e lo bevve d’un sorso. Mi porse un sigaro e dei fiammiferi per accenderlo.
“Rum e sigaro, cosa c’è di meglio, fratello?”.
Io volsi lo sguardo verso le ragazze, sollevando le sopracciglia per sottolineare l’invidia latente.
Pierre sorrise, poi il suo sguardo si perse lontano, oltre il tramonto, le nuvole poderose e il rosso infuocato. Sembrò rincorrere un demone invisibile e trasparente che perturbava l’aria e fermava il vento, poi all’improvviso chinò la testa come piegato dalla scure di un rimorso e sussurrò: “in Bretagna il mare non è così bello, eppure era casa mia”.
“Ti manca la Bretagna?” dissi tanto per dire qualcosa.
Pierre scosse la testa e sorrise: “no, no, la Bretagna appartiene ad una altra vita…”.
Restammo per un po’ in silenzio lasciando spazio al rum di fare il suo lavoro antico, distendere e ammansire i sentimenti degli uomini, prima di perderli definitivamente.
“Ti piace qui?” alla fine mi chiese.
“Si” risposi, e aggiunsi “se non fosse per gli scarafaggi, sono un insetto fobico”.
Pierre rise ancora di gusto: “perché in Italia gli scarafaggi non esistono?”.
Scossi la testa: “come a Parigi, ma non così tanti come qui…”.
Pierre tirò una profonda boccata dal suo sigaro e si riempì ancora una volta il bicchiere di rum.
“A Parigi manca tutto il resto…”.
Gli uccelli marini da preda volavano alti nel cielo e Pierre sembrò per un lungo minuto inseguirli con lo sguardo, cercava forse di guidare i loro volteggi ma era contrariato perché sembrava non riuscirci.
“In Bretagna sono tutti marinai…Io sono un medico, come tutti nella mia famiglia, ma dopo la laurea ho assecondato il demone del mare. Regate, traversate a vela, due giri del mondo con gente che ci sapeva andare, uno fra Tutti Eric, il capitano (Tabarly)! Il migliore di tutti, la gente parla, parla e poi parla ancora perché non sa cosa dire e se non lo fa non sa come giustificare a se stessa la propria esistenza. Lui stava sempre in silenzio e la folla, quando poteva la evitava…”. Sembrò all’improvviso a disagio forse con me, ma certamente con se stesso, e storse la bocca in un ghigno feroce.
“Ti piace il rum?”.
“Certo che si!” risposi.
“E allora bevi e non rompermi le palle…”.
Rimanemmo ancora una volta in silenzio finché il rum non gli sciolse la piega del cuore che gli aveva storto il viso e riprese a parlare come per assalire, una volta ripreso, i propri demoni.
“Poi trascinato dal rimorso per la mia famiglia, tornai in Francia e trovai lavoro a Parigi.
Gli anni trascorsero lenti e inesorabili, i figli crebbero e tutto era magnificamente perfetto quanto sterile. Io dal mio studio guardavo la pioggia scendere lentamente sui vetri e le strade affollate domandandomi dove tutta quella gente andava così di fretta. Le persone con cui mi capitava di conversare se avessero avuto l’ardire di ingoiare la propria saliva sarebbero morte avvelenate, ma io facevo finta di niente, non era il mio veleno.
Il tarlo della convivenza aveva lacerato ogni emozione fra me e mia moglie, i miei figli percorrevano le loro vite altrove, mentre il mare ritornava prepotente a tormentare la mia anima. ”Restò per un pò in silenzio, con gli occhi vacui a cercare una luna che non voleva sorgere dalle croste del suo bicchiere che continuava a fissare nella vana ricerca dei nodi nascosti della sua dannazione.
“Vieni con me” disse, all’improvviso, alzandosi dalla sedia con un ruggito da bestia ferita che non ammetteva repliche, il bicchiere di rum in una mano e il sigaro nell’altra. Il tono fu così perentorio e solenne che il tramonto sconvolto in un impulso di paura o forse pudore simulò di fermarsi e magari lo fece. Le tenebre smisero di fare capolino e noi ci alzammo fra le palme e prendemmo a camminare sulla spiaggia. Il vento girò intorno circospetto nell’ansia di capire chi era stato in grado di sconvolgere l’ordine universale della natura e nel dubbio sospirò inquieto e certamente infastidito da tanto ardire. Si sa, sembrava dire, gli uomini non hanno pudore.
Cercai di non far caso ai segni unti e pestilenti d’inquietudine che ci avvolgevano e procedemmo infausti sostenuti, almeno io, dall’attesa del prossimo sorso di rum, la bocca arsa dal verme di un nuovo abisso sconosciuto.
Il resto non aveva più ormai alcuna importanza, cercavo solo di ricordarmi dov’ero e che il respiro fetido e bruciato da drago che mi invadeva arrogante le narici era proprio il mio. L’improvviso fragore del silenzio del vento suscitò dal mare un tanfo di granchi morti che ci fece lacrimare gli occhi e suonare la rumba allo stomaco già sconvolto.
A stento, poco più in là, vedemmo una croce azzurra
fatta probabilmente con le coste di una cassetta di legno, dipinta alla meno peggio e di fretta, che troneggiava sull’oro della sabbia al confine con la terra battuta della strada come un’insegna festosa al limite estremo del tramonto tramortito. Non vedemmo la poca gente camminare avvilita nella polvere eterna della strada, non vedemmo le poche auto strombazzanti nel nulla, non vedemmo un carretto colmo di pesci che lasciava sulla via una scia di sangue e di umori maligni in un nugolo di mosche impazzite, trascinato da un uomo rassegnato all’infamia della propria esistenza.
Non vedemmo le nuvole inquiete scontrarsi e combattere per riprendersi il dominio del cielo. Non vedemmo la luna impaurita sorgere e terrorizzata dalla follia del momento precipitarsi in mare senza neppure un agonico sussulto d’improvvisa e inaspettata solitudine. Non vedemmo neppure gli uccelli marini da preda scannarsi sulle acque nella lava dei nostri desideri frustrati e inespressi. Non vedemmo i cetacei giganti allontanarsi dal reef con il sussulto dei loro cuori pesanti e soffocati dalla certezza che un leviatano antico era sorto dal nulla da qualche parte per dar loro la caccia, non sapevano con certezza dov’era, ma erano certi della sua maligna esistenza dalla samba di terremoto estremo che scuoteva le acque e agitava le danze del plancton confuso nella luce fosforescente della marea recalcitrante.
Non vedemmo i coralli infrangersi nei sussulti delle onde create dalla fuga repentina e scomposta dei cetacei. Non vedemmo esplodere sui fondali di sabbia le eterne conchiglie dei tempi dei vulcani consumati. Non vedemmo, ne sentimmo il tremito della sabbia sotto i nostri piedi aggrovigliarsi nella contorta preghiera antica nell’estremo gesto di pietà del chiedere perdono per i nostri peccati meravigliosi che aveva bevuto dal sudore di rum delle nostre caldane incontenibili. Non vedemmo proprio niente, ma Pierre si fermò e si inginocchiò, segnandosi il petto e rovesciandosi così il rum addosso ma sembrò non farci poi caso.
Nulla aveva più ragione di esistere “è un nuovo battesimo, profano quanto si vuole, ma autentico” sussurrò a sé stesso, ma io riuscii a udire comunque il suo sibilo da ubriaco bestemmiatore consumare i denti nell’acido d’aceto della sua tristezza irrefrenabile. Riapparve sul suo volto la piega distorta del suo labbro infelice, il più autentico e vulnerabile, quello che cercava di tenere nascosto senza riuscirci. Volse lo sguardo in alto verso di me e disse: “io sono sepolto qui, di tanto in tanto vengo a trovarmi e recitare una preghiera per la mia anima”. Era già notte, all’improvviso, e senza alcuna certezza, ci precipitò addosso la solitudine come il latente sudario di morte che alberga in noi sin dal primo vagito inconsapevole.
*Chi è Vincenzo Onorato
Vincenzo Onorato (Napoli 1957) è uno dei grandi armatori e veilisti italiani. Con il suo team Mascalzone Latino, fondato nel 1993, ha al suo attivo due partecipazioni alla Coppa America, Nel 2002 ottiene solo una vittoria. Nel 2007 si mostra più competitiva, restando in corsa a lungo per le semifinali.
Nella sua lunga carriera ha vinto di tutto, su tutto. Farr 40, Cookson 50, Melges, IMS, Mumm 30, Ha iniziato a navigare sulla barca di famiglia, l’Alcyon, il cutter con fiocco bomato del padre Achille, fondatore dell’omonima Compagnia di Navigazione. La sua barca preferita è il “vecchio” Swan 65 Mascalzone Latino XIV con cui vive lunghi periodi girando il Mediterraneo e andando a pesca, l’altra sua grande passione oltre alla vela.
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5 commenti su “Vivere e morire a Bora Bora. Il racconto (vero) di Vincenzo Onorato”
Francamente colpito e coinvolto dalle parole del racconto, un bravo a chi con tanta passione e leggerezza ha saputo descrivere i sentimenti più profondi.
GRANDE
Grande Vincenzo, mi hai fatto vivere per una per qualche ora in quella spiaggia, quanta passione in quelle righe, il mare un amore innato
Grazieeeee
Struggente e profondo piu’ del piu’ profondo mare…….
Viene da dire: quando l’allievo è pronto il maestro appare. Bella testimonianza
Racconto bellissimo ed emozionante, scritto benissimo , evoca immagini reali che sembrano sogni. Bravo Vincenzo Onorato, non solo come velista ma anche come narratore di esperienze che arrivano al cuore e che piegano la vita .