La sindrome dell’armatore ovvero come essere felici nonostante la barca
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Dopo averci raccontato come si può partecipare alle regate d’altura sicuri di perdere (ma divertendosi un sacco), nel secondo articolo che Marco Cohen, imprenditore cinematografico milanese, ha scritto per noi, l’organizzazione della trasferta per la Copa del Rey di Palma di Maiorca e la traversata Chiavari-Minorca sul Mat 1010 Dajenu di cui è armatore si trasformano in una riflessione sul senso di avere, o meno, una barca (a proposito: ve lo abbiamo chiesto anche noi).
Come sempre, è scritto con grande ironia e vi consigliamo di leggervelo sorseggiando un buon bicchiere di vino!
La sindrome dell’armatore
Avete in mente quelle pubblicità della cantieristica a vela francese con improbabili armatori al timone con camicia bianca immacolata come la barca, champagne e bionda in compagnia (ma perché mai il contrario?) che ti guardano ammiccanti dalle pagine del Giornale della Vela, come per dirti “se diventi armatore un giorno questa vita da sogno sarà tua”?
Col cazzo. Non fatevi ingannare.
Avete in mente quei film sui serial killer dove l’FBI profila i ricercati e alla fine soffrono sempre di schizofrenia o sindrome da sdoppiamento della personalità? Ecco: con livelli socialmente più accettabili, la maggior parte degli armatori soffre, ha sofferto o soffrirà di questa patologia. Non è un se ma, solo un quando e quanto. Soprattutto se non hai un Maxi da regata con container e marinai al seguito, ma un 10 metri come il sottoscritto.
Vendere o non vendere?
Rispetto al classico dilemma del Principe di Danimarca “essere o non essere?”, noi armatori preferiamo un più pragmatico “vendere o non vendere?”.
Ma procediamo con calma e vi racconto la preparazione alla Copa del Rey 2022, terzo appuntamento del triplete velico di Dajenu (il Mat 10.10 di Marco Cohen, ndr) dopo la 151 Miglia e la Giraglia.
Dopo aver provato a cercare uno stazzatore in Liguria (più difficile di un idraulico a Milano a ferragosto), aver compilato per l’ennesima volta tutti i moduli possibili per l’equipaggio, i cui dati anagrafici ormai conosco meglio di quelli dei miei famigliari, eccomi finalmente al supermercato martedi 19 luglio, per preparare la spesa per il gruppo di volontari che alla fine ho convinto a fare la traversata Chiavari – Maiorca, ‘na passeggiata di 450 miglia che, per noi conigli e fighetti, include anche il passaggio del mitico Golfo del Leone.
Carta bloccata, giornata rovinata
Sono all’Esselunga, in versione scaricatore camallo genovese, sudato per i 40 gradi all’esterno con due carrelli di provviste: kg 180 circa considerando le 64 bottiglie di acqua da 2 litri e i 64 pasti necessari a coprire con serenità il trasferimento.
La cassiera mi guarda infastidita e mi dice “mi scusi, ma la sua carta è stata rifiutata”. Sorrido gentilmente, in stile manager da copertina di Business Week International e le dico “guardi, non è possibile“. Invece è possibile se hai battuto ogni record di spesa in preparazione della regata (spese che, ovviamente, avevi pietosamente in parte imboscato dal bilancio famigliare ufficiale, sotto la voce manutenzione straordinaria) e soprattutto se l’algoritmo incrocia le prenotazioni per il sabbatico di tua figlia in Australia, il suo traghetto per la gita di fine maturità Mikonos – Paros, con lo smistamento dei voli dell’equipaggio sparsi per il sud del Mediterraneo da Palma di Maiorca e per quelli della regata in direzione contraria. Non essendo profilato come agenzia viaggi, mi avevamo chiaramente bloccato la carta.
Esco in macchina per dirigermi dall’amico armatore che mi accompagnerà nel trasferimento, urlando come un pazzo e con i quasi 200 kg di spesa, le cerate per la traversata e due vele: “Basta, è l’ultima volta che mi faccio fregare a settembre vendo la barca”.
La ricetta della felicità
Stacco. Secondo giorno di navigazione, solo 48 ore di separazione dal posteggio Esselunga. Tramonto, il Golfo del Leone ci accoglie con una sorta di ponentino ruffiano che manco a Trastevere. Tiro fuori Spirit of Dajenu, il nettare preparato dal mio amico Paolo Gusti al motto “questa bottiglia portala in giro”, e assieme anche a mio figlio, a 80/100 miglia dalla costa più vicina, beviamo felici come non mai.
In preda a piena ebbrezza eolica e alcolica, progettiamo anche un’improbabile Chiavari – Tangeri per l’anno successivo. Balene, tramonti, risate, sezione cinemino all’aperto, mangiate (il mio amico è un grande chef e anche con un orrido fornellino da regatante sforna una pasta dietro l’altra). Il tempo vola via veloce come in una traversata atlantica in miniatura.
Arriviamo col Code Zero a Minorca. Terra.
Sono a terra felice, il pazzo isterico che urlava è solo un lontano ricordo. Abbraccio mio figlio, saluto il gruppo di amici e mi sento in armonia con l’universo. Forse, per la prima volta da quando è successo, riesco perfino ad accettare il fatto che il Milan abbia vinto lo scudetto.
La morale della favola
Mentre scrivo queste righe sono tornato a Milano per far finta di lavorare una settimana per non perdere completamente la faccia con i miei soci e sto preparando la borsa per la settimana di regate.
Metto la giacca in lino doppiopetto di mio padre (che usava in quelle rarissime volte che arrivava in zona podio per le premiazioni veliche) in valigia per la serata finale di festa della Copa del Rey.
E mi rendo conto come, di padre in figlio e speriamo avanti così, a volte “le scelte sbagliate o meno sensate, come accollarsi una barca, sono quelle che danno la maggiore felicita (Cit. Mario Losio del bar BigStore di Milano)”.
Marco Cohen
*Vi racconto chi sono (con ironia)
Marco Cohen, produttore cinematografico e appassionato velista, si descrive così: “Marco Cohen, Interista, filosofo, taglia 54 e nei momenti belli 56, produttore di film necessari per me e per la mia famiglia. Ho riabbracciato la vela a 37 anni dopo l’ennesimo infortunio a calcio quando ho realizzato che è l’unico sport che si può fare da seduti e con un bicchiere in mano.
Fino a 25 anni risse famigliari su un J/24, Fiesta, col mio gemello Daniele e nostro padre Corrado, detto il vascello fantasma perché anche quando non ci vedevano, ci sentivano, poi di nuovo un J/24, un J/92 s e dal 2016 il mio amato Dajenu di Mark Mills. Mezzo veloce e di classe finito impropriamente nelle nostre mani, più adatte a prendere in mano l’apribottiglie che il timone”.
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