Quest’anno, per Natale, abbiamo deciso di farvi un regalo, per ricambiare l’affetto che ci avete dimostrato in questo strano 2020 dove il Giornale della Vela ha totalizzato 6 milioni (sic!) di visualizzazioni. Il racconto, in esclusiva per voi, di un grande scrittore e velista.
Lui si chiama Pietro Grossi, il suo libro “Il Passaggio”, edito da Feltrinelli, è un piccolo capolavoro ricco di mare, di vela, di rapporti umani, di navigazioni, di avventura. In calce trovate la sua breve “autobiografia”. L’illustrazione di copertina è di un altro grande talento: Luca Tagliafico, illustratore con il pallino della vela.
Abbiamo scritto anche troppo: è ora di godersi il racconto di Pietro, intitolato “Che Cosa Cerchiamo”, ambientato subito dopo una brutta tempesta. Un consiglio: leggetelo con calma. Solo così potrete cogliere i dettagli sottintesi e godervi appieno questa bellissima storia di mare.
un racconto di Pietro Grossi
Sedevo rannicchiato sul ponte e sentivo il teak rigarmi la pelle. Mi teneva caldo una felpa, scartavetravo e davo la coppale sulla tuga del Rizla.
Marco e il tedesco cercavano di aprire le ganasce piegate dell’albero. Di quello che rimaneva dell’albero. Un mezzo tronco scomposto a metà barca, come l’osso spezzato di gabbiano. Forzavano i bulloni e si fermavano e osservavano e bestemmiavano.
L’odore dolce della coppale si mescolava al sale e a quello lontano del pesce. La sollevai con il pennello e la feci ricolare nel barattolo, era morbida e sicura. Staccai un pezzo di ferro rimasto incastrato nella falchetta, accanto a un candeliere spezzato.
Il vecchio mise un piede sulla passerella, aspettò un secondo e salì. Era una cosa che non faceva mai. Aspettare, dico, salire con prudenza. Di solito lo faceva di corsa, senza fermarsi. Aveva i capelli spettinati e sembrava più anziano con quei pantaloncini e quelle tre rughe a traverso della fronte. Teneva al petto, con la mano, un sacchetto di carta marrone. Erano mani forti e gentili, le sue. Mani di cui ti potevi fidare. Poggiò un piede in pozzetto e sparì sotto coperta.
Marco diede un calcio alla base dell’albero e mise le mani sui fianchi, il viso contratto. Alzò gli occhi chiusi al cielo. Era un buon timoniere, Marco. Aveva in testa un bandana, indosso un paio di jeans tagliati e una maglietta bucata. Il tedesco armeggiava ancora con un bullone.
Il vecchio tornò fuori con un vasetto di plastica in mano e un cucchiaino. Si mise a sedere sulla tuga, poco lontano da me, con i piedi sul ponte.
– Occhio che lì è fresco.
Lui guardò in basso e tornò a fissare il vasetto.
– Che mangi? – chiesi.
– Uno yogurt.
– Da quando mangi yogurt?
– Da stamani.
– È buono?
– Spero. Sa di sano.
Silenzio.
– Ti piace l’Ovni? – domandò con lo yogurt in bocca.
Guardai accanto.
– Sono brutte, ma solide – dissi.
– Hanno la chiglia abbattibile.
– Sì, lo so, sono furbe.
Silenzio.
– Il legno è più bello.
– Mah.
Sembrava stupida, d’un tratto, quella parola: bello. Il vecchio girò la testa verso Marco e il tedesco che lottavano con il mozzicone dell’albero. Prese una cucchiaiata di yogurt.
– Come vanno i lavori? – chiese.
– Non c’è male. Con calma.
– Bisogno di una mano?
– Io no. E loro mi sa che è meglio lasciarli soli.
– Mi sa anche a me. Gli altri dove sono?
– A terra, da qualche parte. Hanno detto che volevano fare un giro.
– Come stanno?
– Così – dissi.
Il vecchio alzò lo sguardo sulle drizze dell’Ovni che scampanellavano.
– Lo sai che il tedesco ha lasciato la moglie per venire con noi? – disse.
– Quando torna a Monaco la ritrova.
– Bisogna vedere se lei ritrova lui.
Mi fermai un momento e staccai coi denti un pezzetto di unghia.
– Gran bel pezzo di figliola – disse lui.
– Già, occhi azzurri e culo tondo.
Sorridemmo. Il vecchio prese una cucchiaiata di yogurt.
– Ce n’è parecchio in quel vasetto – dissi.
– Me lo faccio durare.
Raschiò un po’ il bordo e prese un’altra cucchiaiata. Io intanto cercavo di levarmi della coppale appiccicata a un dito.
– Secondo te dovevamo uscire?
Diosanto, pensai.
– Avevamo fretta.
– Lo so, – disse lui – ma forse non dovevamo uscire.
Presi lo straccio e me lo passai sulle mani.
– Era un bravo ragazzo – disse.
– Sì, era un bravo ragazzo. È stata una brutta tempesta.
– Non lo so, forse non dovevamo uscire.
Continuava a raschiare i bordi del vasetto.
– Credo siano cose che non si decidono – dissi.
Silenzio.
– Forse.
Il vecchio raschiò ancora e prese l’ultima cucchiaiata. Osservò il vasetto vuoto, si alzò e andò verso la scaletta. Poco prima di scendere si fermò, fece come per dire qualcosa, poi ci ripensò e sparì sottocoperta.
Io mi imbambolai sullo spazio dove si era fermato, poi immersi il pennello nel barattolo. Lo strusciai contro i bordi per levare l’eccesso e ripresi a stendere la coppale. Non mancava molto ormai, per finire.
Ecco come si racconta Pietro: “Da che ho memoria, i miei più antichi amori sono stati scrivere e andare per mare. Il mare, d’altronde, è sempre stato un amore meno burrascoso, più sincero. Questa è forse una misura della mia idiozia, o dell’idiozia del genere umano: ho finito per passare più tempo a scrivere.
Mentre abbozzavo i miei primi accrocchi letterari, da piccolo, imparavo ad andare a vela, sui Laser e poi sui 470. Ho poi traversato l’Atlantico, pubblicato racconti e romanzi, passato mesi nel mar dei Caraibi, vinto premi letterari, navigato buona parte del Mediterraneo occidentale. La foto che mi ritrae è stata scattata nell’unico momento in cui sono riuscito a combinare entrambe le mie amanti: durante una tappa del Passaggio a nordovest, nei cui luoghi ho ambientato un mio romanzo”.
Il romanzo a cui si riferisce Pietro è “Il Passaggio”, edito da Feltrinelli. Compratelo e leggetelo se siete un minimo appassionati di mare, di vela, di rapporti umani, di navigazioni, di avventura.
Ve lo consigliamo perché é un racconto emozionante con al centro della scena una barca a vela di 12 metri in acciaio che deve attraversare il passaggio a nord ovest, dalla Groenlandia al Canada. Un viaggio ai confini del mondo tra balene, tempeste, incidenti, iceberg, dove la bussola impazzisce e ci si affida solo al GPS, se funziona.
A bordo padre e figlio, un tempo legati dalla passione per la vela, che si ritrovano insieme dopo anni di lontananza e di litigi.
Le tue informazioni non verrano mai cedute a terzi
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6 Comments
Spesso anche gli errori possono essere inseriti così sapientemente e con senso artistico nella sinfonia che le parole riescono, a volte, a scriver sul foglio (sia esso di carta o anche soltanto virtuale…) ma quando qualcuno non sa distinguere e conseguentemente mettere insieme le parole, quando si cerca di leggerle (per capirne il significato) si prova soltanto fastidio e disgusto. Sono sempre stato molto fortunato nelle mie letture, sin da quando ero adolescente e ora (che, ahimè, sono diventato anziano) se non posso chieder ad alcuno di saper, per forza, scrivere con un minimo di eleganza e musicalità, penso si debba da lui pretender che sappia almeno che il termine “copale” è maschile per cui si “dà il copale” così come, analogamente, si “dà lo smalto”.
Dal vocabolario Treccani: copale (pop. coppale) s. f. o m. (sostantivo femminile o maschile) [dallo spagn. copal, e questo dall’azteco copalli]. – 1. Resina prodotta da varie leguminose cesalpiniacee, che si rinviene allo stato fossile (più pregiata) o si ricava da piante attuali; si presenta in masse fragili con la superficie raggrinzita, di colore tra il giallo chiaro e il bruno rossiccio, e costituisce il principale ingrediente di vernici e smalti di qualità pregiata. Olio di c., liquido viscoso, di colore più o meno rosso, ottenuto per distillazione secca della copale, usato come solvente di resine. C. di Manila, altro nome della resina nota come manilla o dammara bianca. 2. Nell’uso corrente, scarpe di c., scarpe di vernice, di pelle laccata.
Altrettanto gravemente errata è l’espressione “aveva in testa un bandana” perché il termine in questione è femminile e quindi dovremo, obbligatoriamente, sempre scrivere (e dire): “la bandana” e/o “una bandana” e mai “il bandana” (come è stato scritto nel libro) o “un bandana”.
Dal vocabolario Treccani: bandana s. f. o m. (sostantivo femminile o maschile) [dall’ingl. bandana, variante meno com. di bandanna, che è dal hindī bāndhnū, nome di un sistema di tintura usato nella produzione originaria] (pl. le bandane o i bandana). – Fazzoletto di cotone leggero, a vivace fantasia bicolore, tipico dell’abbigliamento dei giovani, che lo portano legato attorno alla fronte, o al collo, o ai polsi.
Cara signora Louisa (con un nome così chissà se sarà italiana…) Dopo aver letto le sue spiegazioni dubito fortemente della sua capacità di consultare i vocabolari e d’altronde, se questa dimestichezza l’avesse, saprebbe che il termine “bandana” è sempre stato usato al femminile: famose erano le bandane (sempre e tutte usate al femminile) dei filibustieri che animano l’epopea e la letteratura riguardante i pirati (dei Caraibi e non) come ancor più famosa (perlomeno in Italia) e sempre declinata al femminile fu “la bandana” usata da un famosissimo politico multimiliardario che la uso dopo il trapianto di capelli…
Analogo discorso va fatto con il copale che è fabbricato con l’uso di resine (come tutte le vernici o le pitture) come lo “smalto” (anch’esso fabbricato mediante resine) ma da ciò non consegue automaticamente che il copale e lo smalto vengano declinati al femminile! D’altro canto è risaputo che la lingua italiana è insidiosa, piena di “tranelli” ed eccezioni ma sta, anche in questo, tutto il suo fascino!
Usare malamente una lingua e violentarla non è, in ogni caso, reato quindi ciascuno può usarla come vuole, come sa o come può…É un discorso culturale che va ben oltre questo caso e queste righe e anche in libreria si comprano i libri nei quali, in qualche modo, ci riconosciamo (anche nel linguaggio più o meno corretto) e sanno regalarci una qualche emozione…