ESCLUSIVA “Così sono naufragato in mezzo all’Atlantico”
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Nicolò Gamenara aveva un sogno, quello di attraversare l’Atlantico in solitario. Uscito dall’Istituto Nautico, ha sempre navigato per lavoro. Ha fatto il marinaio sul 12 m Stazza Internazionale Thea in Danimarca, attualmente è comandante di un altro 12 m S.I. in Norvegia, il “Vema III”.
A 26 anni, ha deciso che era giunto il momento di lanciarsi all’avventura. Senza farsi pubblicità, ha recuperato un vecchio Mini 650, l’ha preparato con le sue mani (e ribattezzato Caretta Caretta, il nome scientifico della tartaruga di mare) ed è salpato a novembre scorso da Cecina, in Toscana, in direzione Bahamas (e poi Florida), passando per Gibilterra, Canarie e Capoverde. E’ filato tutto liscio fino a Mindelo.
Poi, il disastro, con il naufragio a metà strada fra Capoverde ed i Caraibi per via di un problema alla chiglia. Per sua fortuna, è stato soccorso da una Bulk carrier (le navi usate per trasportare carichi non-liquidi e non unitarizzati in container o pallet) che ha alato anche la barca a bordo. Arrivato dopo due settimane a Città del Capo, in Sudafrica, è stato accolto e “adottato” dai cantieri Southernwind.
Non potevamo non condividere con voi il racconto “a caldo” che ci ha inviato non appena ha messo il piede a terra a Cape Town. E’ scritto di getto, l’adrenalina ancora non è andata giù. Leggete, calandovi nei panni di un ragazzo a cui, come scrive Nicolò, “interessava vedere se ancora la scintilla del bambino era viva”.
COSI’ SONO NAUFRAGATO IN MEZZO ALL’ATLANTICO
“Erano tanti anni che volevo partire per un viaggio lungo in barca senza troppi porti o ancoraggi ma solo centinaia di miglia in ogni direzione. Trovare l’egoismo necessario per partire non è stato facile. Nell’inverno del 2017 ho comprato a Olbia un minitransat, un Naus 6.5: un mini un po’ sfigato, lento, strano e di poco valore commerciale, quest’ultimo punto mi interessava molto.
A novembre 2018 sono partito da Cecina con l’intenzione di arrivare alle Bahamas e poi in Florida. L’uscita dal mediterraneo è stata lunga ma sorretta da una buona volontà e tanta voglia di ritrovarmi in Oceano. Tangeri il mio ultimo porto prima delle Canarie.
Poi solo Oceano. Sono felicissimo, la barca è carica ma sopporta e facciamo medie decenti. Cerco di timonare il più possibile, mi ricordo delle estati su Thea in Danimarca quando non avendo pilota si passavano le notti e i giorni al timone. Dopo una bellissima traversata atterro a La Graciosa (Canarie) il 13 dicembre di mattino, sono spaesato e frastornato. Per fortuna è pieno di francesi, stringo belle amicizie. Dopo qualche giorno mi sposto a San Miguel Tenerife e poi volo a Roma, è Natale.
Dopo Capodanno ritorno sulla barca, sento di nuovo la pressione non so perché. Gli amici locali mi sostengono e sdrammatizzano i miei dubbi. Alla fine parto con un bel Nord teso. Il piano è di arrivare a San Salvador, Bahamas, 3200 miglia sull’ortodromica.
I PRIMI PROBLEMI
Tutto va benone, rispetto la mia solita abitudine, prime 24 ore tranquille poi si inizia a spingere un po’ di più e a farla camminare bene. Il terzo giorno appena dopo aver fatto il punto di mezzogiorno sulla carta, momento nel quale di solito riflettevo sulla rotta, mi accorgo che il timone di dritta ha le boccole scassate e il braccio dell’autopilota lavora male mentre l’asse gioca nella losca. Il pilota è un Raymarine tiller, braccio esterno meccanico, appena sufficiente se la barca è invelata con equilibrio e scrupolo. Rifletto, sono tranquillo so che ho l’opzione di Mindelo ancora. Ok, vada per un’ultima tappa, peccato avevo appena fatto la mia media più alta in 24 ore, 190 miglia, ero contentissimo e stavo pescando quasi una lampuga al giorno.
A Mindelo ho subito dei brutti pensieri e non apprezzo il luogo neanche un po’, odori acri e rumori ai quali non ero più abituato. Troppa confusione. Trovo un fabbro mi fa 2 boccole nuove, raddrizza l’asse e mi spenna. Riparto con un bel NE forte, trenta e passa nodi, scarico un paio di grib prima di partire, tutto normale. Solo una piccola alta pressione tra capo verde e le Canarie, non me ne preoccupo voglio andare dritto, a risalire per San Salvador ci penserò più avanti.
LA SITUAZIONE DEGENERA
Invece dopo i primi giorni iniziano i problemi, rompo il bozzello della drizza spi e devo aspettare che cali il vento per salire a metterne uno nuovo. Quando il vento cala, cala per davvero per i prossimi 4 giorni farò solo bolina in brezze incostanti da ovest che nella notte di solito scomparivano completamente lasciandomi alla deriva. Una nave incrociata dopo il secondo giorno di piatta mi passa la meteo mi dice di aspettarmene altrettanti, non fa cenno ad altro. Ne approfitto salgo sull’albero a mettere il bozzello nuovo, purtroppo non ho altro sistema che i nodini prussiani, funziona ma quando torno giù sono viola ovunque e fradicio di sudore. Quando il vento tornerà avrò i miei Spi questo è quello che conta.
Gli alisei purtroppo non li vedrò più, nei giorni seguenti dal 27 gennaio al 1 febbraio, battaglierò con venti da ovest di 30 nodi che poi rinforzeranno ancora. La barca comincia a dare segni di cedimento, è vecchiotta lo so e non è il miglior mini costruito sicuramente ma finché si volava al lasco ce la siamo cavata bene.
La scassa della chiglia, che non è imbullonata ma solo infilata, aveva iniziato a farmi un po’ di acqua già alle Canarie, poca e ero riuscito a tamponare, il sogno doveva continuare. Ora però sta diventando più preoccupante, ogni onda il log sputava acqua dentro, e anche le fazzolettafure delle losche dei timoni a poppa ora facevano acqua. Quello che però mi ha veramente fatto impressione erano i movimenti della scassa e l’acqua che aveva trovato la strada tra i miei tappulli fatti a Tenerife.
Ho rallentato la barca, preso una rotta diversa per non farla battere troppo e ridotto fino alla sola tormentina. Fino a quando l’ultima notte ho deciso al mattino di attivare l’epirb, era il primo febbraio, la scassa mi faceva troppa paura, l’acqua continuava a entrare ormai la puzza di acqua e resina in decomposizione da omosi era terribile.
L’acqua deve essere entrata nella vetroresina della scassa da tanto tempo, senza che fosse possibile accorgesene fino a quando non ha iniziato a trasudare, purtroppo però la struttura era già danneggiata a quel punto. Attivato l’Epirb ho iniziato a preparare la barca all’abbandono e la zattera in caso fosse stata necessaria.
COME TI SALVIAMO LA BARCA
La sera verso l’imbrunire un cargo mi contatta via radio, sono a tiro VHF! Salto fuori e lo vedo in lontananza avvicinarsi, si chiama Baltimore ed è della compagnia greca Diana. Il comandante si accerta subito che io stia bene e poi iniziamo a discutere come procedere. Mi dice che vogliono provare a caricare la barca sul cargo, io penso stia scherzando, gli dico che ci sono ancora almeno tre metri d’onda e il vento sta calando ma sono sempre circa 20 nodi. Comunque sia mi avvicino usando il fuoribordo alla nave sulla murata sinistra, mi passano una messaggera, recupero fino alla cima e la passo attorno all’albero, poi salto sulla biscaggina e volo a bordo della nave.
Appena arrivato sul ponte quasi non riesco a stare in equilibrio, il rollio lento ma pronunciato della nave al traverso del mare è così diverso da quello a cui sono abituato! Mi accolgono a braccia aperte, sono tutti filippini mi dicono ma parlano un buon inglese, fumo una sigaretta, la prima da un mese, ok sto meglio. “Ok andiamo dal comandante sul ponte” mi dice quello che poi saprò essere il terzo ufficiale. Saliamo la accomodation e intanto vedo la gru che vorrebbero usare. Sono perplesso sulle possibilità di riuscire a tirarla su, la barca nel frattempo sbatte e salta contro la murata della nave.
Il comandante mi chiede se ho un golfare per sollevare la barca, negativo purtroppo, per sollevarla dobbiamo passare le fasce. Gli dico che se per lui va bene possiamo rimorchiarla, gli dico che la barca surfa tranquillamente e se perdesse la chiglia e si rovesciasse potrebbe sempre tagliare la cima di traino. L’idea non gli piace, effettivamente posso capirlo, così iniziamo le operazioni per caricarla a bordo.
Per prima cosa avvicinano la barca a poppa quasi al giardinetto sotto la gru delle provviste, tra il mare e la falchetta della nave ci saranno 15 metri quasi.Quasi tutto l’equipaggio viene coinvolto nell’operazione, cuoco compreso. Utilizzando dei bastoni molto lunghi riescono a passare una fascia sotto la chiglia fino a poppa e poi anche quella di prua. Le fasce per farle scendere così tanto sono state allungate con delle cime che poi passano intorno al gancio della gru.
Il nostromo inizia a tirare su, fa paura, la barca oscilla sul gancio in contro tempo rispetto al rollio della nave e quindi sbatte sulle murate più volte, inizio a immaginare la fine. In un attimo invece la barca arriva all’altezza della falchetta dove la assicurano alle draglie della nave e i pali della accomodation ladder. Sorge il problema che il comandante non aveva capito che sotto oltre ai timoni avevo ancora attaccata seppur traballante una chiglia di un metro e mezzo.
Il gancio è a fine corsa e la barca non passa le sopra le draglie con la chiglia. Pensano di segare le draglie ma poi il nostromo suggerisce di lasciarla su delle suspendite attorno allo scafo attaccate alla falchetta a mo’ di scialuppa per intenderci, poi ripassare le fasce e accorciare il tiro del necessario a farla passare.
Appaiono in attimo un altro paio di fasce nuove, le passano e rilasciano il carico dal gancio della gru. A quel punto il tiro si accorcia e la chiglia è pronta a passare sopra le draglie.
Rimane solo l’ostacolo dei pali verticali, dietro alle draglie, della accomodation ladder, tra i pali ci sono due metri e mezzo di spazio, la barca è tre metri di larghezza, me la immagino già infilzata nel palo….
Il nostromo non ce la fa più sono due ore che ha il comando della gru in mano e inizia a pensare di non riuscire a farla passare, il comandante osserva dall’aletta. Decide quindi di scendere e prendere il comando della gru, a quel punto urla un paio di comandi in filippino conta uno due e tre e con il rollio della nave e il braccio della gru mentre i marinai tengono la barca con i venti in posizione la fa passare al volo tra i due pali, un miracolo.
Poi in un attimo fanno una sella con i barili dell’olio vuoti e dei pallet e la barca è sul ponte fissa. Non ci posso credere, ci sono volute tre ore ma è stata una manovra incredibile. Purtroppo comunque durante l’operazione sono stati fatti diversi danni, soprattutto quando il mini è rimasto appeso tipo scialuppa sulla murata.
Ho imparato molte cose durante l’operazione e nei giorni successivi sul cargo, grazie ad un equipaggio molto disponibile e preparato. Per un attimo ho rischiato di sbarcare in Corea destinazione finale del viaggio. Ma poi grazie alla disponibilità della compagnia siamo riusciti ad organizzare uno sbarco veloce e un rimorchio in porto qui a Cape Town.
Sulla nave ho letto e mi sono esercitato con il sestante, per quanto possa contare fare un punto su una cosa di 300 metri che a malapena senti muovere con un sestante giapponese eccezionale, un tavolo da carteggio immenso e un ufficiale che ti prende il tempo.
Ero partito perché volevo testare la mia passione in qualche modo, dopo anni di comode barche grandi equipaggiate e mantenute alla grande mi interessava vedere se ancora la scintilla del bambino era viva; posso dire che lo è e più che mai, anche se il finale è duro da digerire e accettare, non fai altro che pensare e appuntare cosa faresti diverso e cosa non faresti più, insomma i pensieri ti attanagliano. Siccome la passione è viva e da soli si sta tutto sommato bene voglio continuare a navigare, e presto lo farò con una nuova barca”.
Nicolò Gamenara
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3 commenti su “ESCLUSIVA “Così sono naufragato in mezzo all’Atlantico””
A me non sembra un’avventura da raccontare andandone fieri.
Affrontare l’oceano in queste condizioni non è di certo una scelta avveduta.
Mi sembra invece un buon esempio sul cosa non fare per i giovani velisti.
Ringrazi il cielo di aver portato a casa la pelle.
Fulgido esempio di incoscienza, spavalderia, superficialità e fancazzismo puro. Qualcuno poteva rischiare la pelle per andarlo a raccattare. Ci avrà mai pensato, questo gran “marinaio”?
Non dar retta, la verità è che sei stato molto sfortunato a non beccare subito i soliti venti portanti, hanno attraversato l’Atlantico su canoe, windsurf, addirittura automobili, Colombo ha scoperto l’America perché anche se avesse voluto non sarebbe potuto tornare indietro con gli Alisei. Anzi sei stato coraggioso e anche prudente, avevi l’Epirb.