Vetroresina: si fa presto a chiamarla così
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Quando affermiamo che un’imbarcazione è costruita in vetroresina diciamo tutto e niente. Si fa presto a chiamarla così, ma in realtà il materiale che ha rivoluzionato il mondo della nautica, e non solo, ha diverse declinazioni; la vetroresina può variare sia sulla propria composizione interna sia nella tecnica di utilizzo per la costruzione delle imbarcazioni.
COS’È LA VETRORESINA?
Partiamo dal concetto base: si tratta di quello che può essere definito come “materiale composito”. È formato da due parti: una parte di fibre che hanno il compito di fornire rigidezza e resistenza; l’altra parte è di resina (materiale plastico) che ha la funzione di mantenere l’allineamento delle fibre e distribuire il carico su tutta la struttura. La vetroresina ha cominciato a essere sperimentata nel settore nautico e in quello automobilistico intorno agli anni ’50. Il suo uso su ampia scala per la costruzione delle barche si è affermato a cavallo dei ’60-70 dove ha progressivamente sostituito il legno e i suoi compositi. Come accennavamo, la parola “vetroresina” esprime solo un concetto generale. Se andiamo nello specifico, infatti, la differenza tra un composito e l’altro che portano questo nome è data da diversi fattori.
LE TRE GRANDI FAMIGLIE DI RESINE
Le tre famiglie di polimeri che si utilizzano per realizzare la vetroresina sono la poliestere, la vinilestere e l’epossidica. Si tratta di tre tipi di resine con caratteristiche differenti tra loro. L’utilizzo di queste nella costruzione di una barca può andare a incidere anche in maniera sensibile, al rialzo o al ribasso, sul dislocamento finale di un imbarcazione e sul suo prezzo. Valutando le tre resine Dal punto di vista della resistenza, della rigidità finale e della percentuale di ritiro una volta asciutta, quella che ha la performance peggiore è la poliestere, poi c’è la vinilestere e quella che ha le caratteristiche migliori è l’epossidica. Per questa ragione la maggioranza di imbarcazioni moderne vengono realizzate in vinilestere e in epossidica. In realtà la resina più impiegata è la vinilestere, perché ha performance superiori alla poliestere e non troppo inferiori all’epossidica, con il vantaggio di costare meno di quest’ultima.
UNA QUESTIONE DI QUALITÀ
Al netto di questi ragionamenti la qualità finale di un composito in vinilestere rispetto a uno in epossidica è inferiore sotto vari aspetti. Il primo, e più eclatante, è il peso. La resina epossidica al chilo costa dal 13 al 15 % in più rispetto alla vinilestere; dall’altro lato, però, consente un risparmio di peso anche fino al 10% su un’imbarcazione finita. Su una barca a vela prettamente da crociera questo è un dato che può passare in secondo piano. Per una barca da crociera sportiva, invece, inizia a diventare importante. In una da regata tale dato è al dir poco cruciale. Per ottenere prestazioni meccaniche simili all’epossidica, nei compositi in vinilestere aumenta in maniera importante la quantità di materiale impiegato e soprattutto la quantità dei rinforzi in fibra. Il costo di una barca in epossidica è più alto ma, dato il maggiore impiego di materiale in una costruzione in vinilestere, questo viene in parte ammortizzato e uno scafo costruito in epossidica costerà in media dal 5 al 10% in più rispetto a uno in vinilestere. Una cifra da considerare come riferimento generale e non assoluto, che può variare in maniera sensibile in base alla tecnica specifica di costruzione. È ovvio che un risparmio di costi intorno al 5% su una produzione di grande serie equivale a un incremento importante dei guadagni. È per questo che i grandi cantieri impiegano di rado l’epossidica e quasi sempre la vinilestere o anche la poliestere; la realizzazione della singola unità, infatti, costa meno e di conseguenza i margini di utile sono più alti. Al contrario l’epo si utilizza frequentemente per modelli one off o custom o, insieme al carbonio, per le imbarcazioni da regata. Considerando che la stragrande maggioranza della produzione di serie sono le barche da crociera o al massimo le ibride “performance cruise” (che altro non sono che barche da crociera con caratteristiche un po’ più sportive), il dato è di chiara lettura. Non esistono grandi cantieri che producono barche esclusivamente concepite per la regata e realizzate su grande serie; di conseguenza l’epossidica appartiene a una nicchia di mercato.
TIPI DI LAMINATO
Il risultato finale del processo di costruzione, lo scafo, è ottenuto per stratificazione. Questo processo consiste nella stesura e nel successivo “incollaggio” di più strati di differenti materiali (resina, fibra di vetro o di carbonio, balsa, questi variano a seconda del tipo di barca e della tecnica di costruzione). Esistono diversi tipi di laminati (ovvero come sono composti i vari strati). I più impiegati nel campo della nautica sono due: il primo è il laminato pieno, formato da vari strati di fibra e resina. Il secondo è il sandwich (tra due sottili pelli di fibra di vetro e resina (due laminati pieni) viene interposta un’anima leggera che può essere di balsa o di schiuma in Pvc a cellula chiusa (Termanto, Airex ecc).
TECNICHE DI STRATIFICAZIONE: MANUALE
Le tecniche più diffuse per la stratificazione sono quella manuale, quella per infusione e in alternativa esiste anche quella del sottovuoto. La tecnica base per laminare è quella manuale, che risulta mediamente anche la meno costosa da un punto di vista tecnologico. La resina solitamente si spruzza con una pistola sulla fibra (vetro, carbonio, kevlar etc) fino ad impregnarla a sufficienza. Successivamente un operatore con un rullo comprime gli strati affinché aderiscano correttamente. Nel caso di un laminato pieno quest’operazione si ripete fino a ottenere lo spessore desiderato.
TECNICA DEL SOTTOVUOTO
Nel caso in cui invece il prodotto da realizzare è il sandwich, tra i due sottili laminati pieni deve essere incollata l’anima in balsa o in PVC. Una delle tecniche più efficienti per farlo è quella del sacco a vuoto. L’anima del sandwich si posiziona sulla murata con la resina. A questo punto si posiziona un telo di polietilene, il cui perimetro è fissato con un biadesivo. Sotto questo telo solitamente corre un circuito collegato a una pompa, che avrà il compito di aspirare l’aria e comprimere il telo sull’anima del sandwich con una pressione che varia da 0,5 a 0,9 bar. Per via dell’effetto di schiacciamento tutta la resina in eccesso verrà espulsa dal laminato e successivamente asportata. Il risultato sarà un composito leggero e rigido.
TECNICA DELL’INFUSIONE
In alternativa al sottovuoto c’è l’infusione. In questo caso gli strati di fibra si mettono a secco sullo stampo, poi si posiziona un telo di plastica. Su questo telo vengono applicati una serie di tubi che sono collegati ai serbatoi di resina. Come nel caso del sottovuoto il circuito ha il compito di aspirare l’aria. Questa volta però la resina, per via delle depressione che si crea, fluisce dai serbatoi verso il laminato andando a impregnare le fibre.
LA COTTURA
Spesso nelle barche da regata o nei one off, di rado nella produzione di serie, il laminato finito viene poi “cotto”. Si utilizza una sorta di forno per 24 ore a una temperatura che varia dai 40 ai 90 gradi in base ai materiali utilizzati. Questa tecnica serve a rendere ancora più solidali i vari strati del laminato, definendo meglio la costruzione e aumentando la rigidità finale.
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1 commento su “Vetroresina: si fa presto a chiamarla così”
Fra le caratteristiche che differenziano i vari tipi di resina, va assolutamente menzionata anche la resistenza all’osmosi, importantissima quando si dovrà qualificare l’usato.
Anche da questo punto di vista le epossidiche sono le migliori.
Epossidica e carbonio sono però ormai termini troppo generici e abusati; purtoppo nessuno sa come e con quali materiali è stata costruita la propria barca e ancora manca una legislazione che faccia chiarezza sull’argomento.