Clipper Round the World Race, ha senso pagare per morire in mare?
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L’Oceano non è per tutti. Se non sei preparato, l’Oceano ti uccide. C’è stato un altro morto alla Clipper Round the World Race (il giro del mondo a tappe su monotipi di 70 piedi ideato da Robin Knox-Johnston), l’avvocato inglese di 60 anni Simon Speirs (nella foto), che è caduto fuoribordo in Indiano spazzato via da un’onda (era legato ma la cintura di sicurezza pare abbia ceduto) mentre stava aiutando altri due membri dell’equipaggio (la barca è Welcome to Great) a cambiare lo yankee (il fiocco con la la base tagliata altissima per evitare le onde).
TRE MORTI IN DUE EDIZIONI DELLA CLIPPER
E’ la terza persona che perde la vita nelle ultime due edizioni: nella scorsa Clipper erano Morti Andrew Ashman, ucciso da un colpo di boma e Sarah Young, caduta in mare.
Il format della regata prevede che tutto l’equipaggio, skipper a parte, sia formato da non professionisti che pagano (anche profumatamente) per partecipare alle varie tappe. Spesso accade che chi prende parte a quella che viene venduta come esperienza di vita sia un vero e proprio profano della vela. Certo, i team prima di partire sono sottoposti a sessioni di allenamento intensivo, ma diciamolo: non si diventa navigatori oceanici con un corso. E la Clipper Round the World non è la ARC, dove si naviga in sicurezza sospinti dall’Aliseo, qui si va ad una latitudine molto più bassa e pericolosa.
I numeri parlano chiaro. Tre morti in due edizioni, non c’è molto da aggiungere: gli organizzatori dovranno investire maggiormente sulla preparazione (di barche ed equipaggi) e sulla sicurezza.
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