Il Moro di Venezia: la barca più amata dagli italiani

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Non avete avuto dubbi. Non c’è Azzurra né Luna Rossa che tenga. Il Moro di Venezia, a 25 anni dalla storica vittoria della Louis Vuitton Cup di San Diego e dalla finalissima di Coppa contro America3, è la barca che vi suscita le emozioni più grandi. E che avete eletto come “più mitica di tutte” nel sondaggio che vi abbiamo proposto sul nostro sito. Mentiremmo se dicessimo che il risultato ci ha sorpresi.

La saga del Moro è ancora vivissima nel nostro cuore. Grazie a Raul Gardini, l’imprenditore romagnolo il cui sogno (quello di strappare la “vecchia brocca” agli americani) divenne quello di tutti gli italiani. Che si scoprirono all’improvviso velisti, che mandarono i propri figli alle scuole di vela, che sostituirono nei loro discorsi da bar gol e traversoni con bompressi e strambate.

Grazie al gruppo affiatato e competente che il Comandante (uno dei soprannomi affibbiati al tycoon ravennate) seppe creare e che, al giorno d’oggi, influenza la vela mondiale in ogni sua branca: velai (Guido Cavalazzi, Davide Innocenti), progettisti e tecnici (German Frers, Claudio Maletto, Roberto Biscontini, Giovanni Belgrano solo per citarne alcuni), regatanti (Paul Cayard, Andrea Mura, Cico Rapetti, Lorenzo Mazza, Tommaso Chieffi), dirigenti (Enrico Chieffi, Marco Cornacchia), professionisti del mare (Max Procopio, Dudi Coletti).

Grazie alle barche gloriose che portano questo nome sulla poppa, otto per la precisione (tre maxi e cinque IACC – International America’s Cup Class), che ancora oggi navigano sparse per i mari del mondo. “Al giorno d’oggi i miti rimangono in piedi per poco tempo, fagocitati dal turbine del web e dei social”, ci ha raccontato Max Procopio, che sul Moro fu imbarcato come grinder, “allora non fu così. Il Moro di Venezia rimase nell’immaginario collettivo a lungo, come a lungo restò sulle pagine dei giornali, italiani ed esteri”. Il contesto storico era propizio: la prosperità, i soldi che giravano, la convinzione che l’Italia fosse la “settima potenza” del mondo. E un uomo che incarnava lo spirito dei tempi, Raul Gardini, visionario e abituato a rischiare.

Come a livello imprenditoriale (si distinse per uno “stile” fatto di colpi di genio, acquisizioni, monopoli, che trasformarono il gruppo agricolo di Serafino Ferruzzi, suo genero, in un impero industriale, la Montedison), così nella vela. “Quando parlavi con lui”, rivela Procopio, “tutto ti sembrava semplice, anche la più impossibile delle imprese”. Era un buon velista, il ravennate: dalle prime piccole derive in gioventù era passato ai Finn, poi all’altura su barche progettate da Dick Carter: l’11 metri Blu Optimist, l’Orca43, di 13 metri e mezzo, con cui vinse il Campionato del Mediterraneo 1971, il 15 metri Naif in lamellare con cui prese parte all’Admiral’s Cup del 1973. Poi l’incontro con Frers, all’epoca assistente dello studio Sparkman & Stephens, che seguì la progettazione del primo maxi in legno lamellare che avrebbe portato quel nome mitico, il Moro di Venezia: era il regalo di Serafino a lui e al cognato Arturo Ferruzzi per i loro risultati a livello imprenditoriale.

Era il 1975. La grande saga del Moro era appena iniziata. Dopo la morte di Serafino Ferruzzi, per un incidente aereo, nel 1979, gli eredi affidarono a Gardini il futuro dell’azienda e il Comandante iniziò la sua ascesa. Intanto, nel 1983, un altro Maxi affiancava il gioiello di Frers, Il Moro di Venezia II. Proprio nell’anno in cui l’Avvocato Agnelli aveva fatto il grande passo, promuovendo la prima sfida italiana di Coppa America, Azzurra, che giunse alle semifinali della Louis Vuitton e fece conoscere la vela nel nostro paese. Non possiamo sapere con precisione quando si accese il “lumino” nella testa di Gardini, ma sicuramente un momento chiave è il 1984, quando la figlia Eleonora, in vacanza a Porto Cervo, assiste alla Sardinia Cup e all’impresa di un giovane americano, Paul Cayard, che arrivato in fretta e furia per sostituire al timone Lorenzo Bortolotti su Nitissima, 50 piedi di Nello Mazzaferro, stravince la regata. Gardini volle conoscerlo per testarne il talento, l’occasione fu a Palma di Maiorca in regata sul Moro di Venezia II.

Si piacquero: dal 1984 al 1992, Cayard fu a bordo di quasi tutte le barche di Gardini, il quale non ebbe dubbi quando si trattò di scegliere lo skipper per la campagna di Coppa. Paul Pierre Cayard, classe 1959, da San Francisco. Ottimo helmsman, starista di livello, ma soprattutto forte di un talento gestionale che spingerà Gardini a commissionargli anche il difficilissimo incarico di general manager dell’operazione. Ma il problema della nazionalità? Secondo il Deed of Gift, il regolamento della Coppa, la barca avrebbe dovuto timonarla un italiano. Per Gardini, abbiamo detto, nulla era impossibile: Cayard, dopo aver firmato un contratto da 200 milioni di lire l’anno (“guadagno come un giocatore medio di NBA, confessò all’equipaggio una volta”, racconta Procopio) prese la residenza a Milano. Adesso bisognava occuparsi delle barche e del team, dopo che nel novembre del 1988 la sfida, sottoscritta dalla Compagnia della Vela di Venezia, era stata consegnata a San Diego. Per le prime, con un’operazione da cinquanta miliardi, venne fondato a Marghera, davanti ai capannoni Montedison il cantiere Tencara, in cui confluirono le aziende della holding capitanata da Gardini con il loro know-how. Un polo di eccellenza tecnologica, che avrebbe fatto capire agli americani e al mondo intero che l’Italia non era soltanto il paese di pizza, spaghetti e mandolino.

Le selezioni dell’equipaggio furono dure: “La filosofia di Raul, riguardo all’equipaggio”, spiega Procopio, “era quella di creare un gruppo di persone solido, senza che ci fossero troppi ‘galli nel pollaio’. Le selezioni del team partirono a Venezia a bordo dei Maxi di Gardini nel 1989-90: Cayard si fece aiutare dai fratelli Chieffi. Era una vita dura, fatta di sacrifici: molti gettarono la spugna”. Intanto, con una cerimonia sontuosa nel cuore di Venezia, a marzo del 1990 venne varato il primo Moro di Venezia IACC e iniziarono i test. L’entourage si spostò a giugno a Puerto Portals, a Palma di Maiorca, dove le condizioni meteo avrebbero dovuto rispecchiare meglio quelle di San Diego. Ad agosto arrivò anche Il Moro di Venezia II, mentre il 19 dicembre del 1990 la base operativa si spostò a San Diego. Dove ad aprile del ’91 arrivò anche Il Moro di Venezia III, fresco di varo, con cui il team vinse a maggio il Campionato del Mondo classe Coppa America.

Il bompresso incriminato dei neozelandesi

A giugno fu la volta del Moro IV, utilizzato solo come barca prova, mentre a dicembre toccò l’acqua Il Moro V (ITA-25), la barca più competitiva con cui il sindacato di Gardini avrebbe preso parte alla Louis Vuitton Cup. “Vivevamo in un clima di spionaggio costante a San Diego: gli elicotteri solcavano i cieli per fotografare dall’alto le barche degli avversari. Io ero anche addetto alla camera oscura perché mi dilettavo di fotografia, passavo le notti a sviluppare le foto di Carlo Borlenghi, ingaggiato come “spia” oltre che come fotografo”, ricorda Procopio. E mentre Il Moro conquistava i Round Robin (le fasi eliminatorie della regata), si capì che lo spionaggio serviva. Soprattutto nella finale di Louis Vuitton contro Team New Zealand di Rod Davis e Michael Fay: Il Moro era sotto di 3-1 ma grazie alle foto di Borlenghi si riuscì a dimostrare che i neozelandesi stavano utilizzando il bompresso come punto di mura del gennaker, una soluzione non consentita dal regolamento.

America3 di Bill Koch

Il loro quarto punto venne annullato, i kiwi accusarono il colpo e i ragazzi di Gardini conquistarono la Louis Vuitton vincendo 5-3. Quella che andò in scena dal 9 al 16 maggio del 1992, probabilmente, è la parte più nota della storia. Da un lato Il Moro di Venezia V, che in patria aveva risvegliato la voglia di vela italiana, grazie anche alle dirette di Telemontecarlo e ai commenti di Cino Ricci. Dall’altro il miliardario Bill Koch e Buddy Melges, a bordo di quello squalo bianco chiamato America3. Una barca più brutta del Moro, ma più veloce: “Siamo arrivati in finale carichi di speranza”, ricorda Dudi Coletti, all’epoca trimmer, “ma abbiamo visto fin da subito che non ci sarebbe stata storia: loro avevano più passo, la barca con aria leggera era più performante, anche perché il regolamento permetteva loro di cambiare le appendici a seconda del vento che avrebbero incontrato. Anche quando vincemmo l’unica prova, quella del momentaneo 1-1, lo facemmo a gomitate, per 3 secondi soltanto, grazie all’intuizione di Cayard di mollare lo spi e lasciarlo cadere in avanti all’arrivo”.

Quattro a uno. Gardini aveva perso, ma riuscì, da grande comunicatore, a tramutare la sconfitta in vittoria. In Italia, al rientro, organizzò una festa a Ravenna, poi a Venezia, dove l’equipaggio, a bordo dei Maxi di Gardini, venne osannato dalla città intera. Era nato il mito del Moro di Venezia. Sopravvive ancora oggi.

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