INTERVISTA ESCLUSIVA – Coppa America, il “Ben Ainslie pensiero”
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Da Sydney nel 2000 a Londra nel 2012 passando per Atene nel 2004 e Bejing nel 2008. Quattro medaglie d’oro in altrettante Olimpiadi hanno permesso a Charles Benedict Ainslie per tutti “Ben” di guadagnarsi un posto in prima fila nella storia della vela olimpica e soprattutto in quella britannica, al punto da meritarsi il titolo di “Sir” conferitogli a gennaio del 2013. Quattro con quella del 2017 le partecipazioni di Ben Ainslie alla Coppa America.
Dopo le esperienze maturate con One World Challenge (2003) e successivamente con Team New Zealand e a seguire quella vittoriosa con Oracle Team Racing, ora per Ben Ainslie è arrivato il momento di tentare l’assalto alla Vecchia Brocca con un team tutto suo il Land Rover BAR. La determinazione con cui vuole riportare la Coppa a casa è evidenziata dalla recente vittoria conquistata nelle acque dell’Oman che hanno ufficialmente dato il via alla stagione 2016 delle Louis Vuitton America’s Cup World Series e che hanno visto il team britannico competere ad armi pari con Oracle Team USA ed Emirates Team New Zealand. Abbiamo incontrato Ainslie a margine dell’evento dove ci ha concesso questa intervista.
LA NOSTRA INTERVISTA A BEN AINSLIE
A oggi qual è la fotografia che ci può dare sul livello di preparazione della sfida che guida? Cosa è stato e cosa c’è ancora da fare?
Siamo partiti due anni fa da zero. In questo arco di tempo abbiamo dovuto a lavorare contemporaneamente su più fronti: dal mettere insieme un team a trovare le risorse e per finanziare la sfida. La parte più complicata è stata quella di reperire gli 80 milioni di sterline la cifra che abbiamo messo a budget per portare avanti la campagna.
Dal punto di vista tecnico quali sono stati gli aspetti più critici da risolvere?
Anche sotto questo aspetto rispetto ad altri team non avevamo un bagaglio d’informazioni utili maturate in precedenti partecipazioni. Partendo da zero anche qui è stato necessario creare un team di lavoro armonizzando le specifiche competenze dei singoli. Creare un spirito di gruppo in questo ambito non è affatto semplice soprattutto quando si ha che fare con aspetti progettuali e tecnici.
E voi come ci siete riusciti?
L’arrivo di Martin Whitmarsh, nel ruolo di Ceo, dieci mesi fa è stato determinante per dare un’accelerazione al processo d’integrazione tra tutte queste competenze. La lunga esperienza di Whitmarsh come amministratore delegato del team McLaren in Formula Uno darà un apporto preziosissimo alla sfida soprattutto in termini organizzativi e operativi. Senza contare poi il contributo di Andy Claughton che coordina tutta la parte tecnica.
In termini di esperienza da mettere a frutto quanto è stato importante partecipare per lei all’ultima edizione della Coppa America?
Questa è la mia quarta partecipazione all’America’s Cup. In particolare le ultime due, quelle con Team New Zealand (Valencia 2007) e Oracle Team Racing (2013), hanno affrontato le rispettive campagne seguendo due percorsi diversi sia sotto il profilo dell’approccio progettuale sia per quanto riguarda la preparazione dell’equipaggio. Per me sono state fondamentali per creare quel bagaglio di esperienza che oggi mi è tornato molto utile.
A tal proposito quanto saranno determinanti in questa edizione della Coppa America il fattore umano e quello tecnico?
Direi che incideranno per un 50 per cento entrambi. Nella passata edizione alla luce dell’ingresso sulla scena dei foil mai sperimentati prima in questa competizione ha fatto sì che la componente facesse la parte del leone relegando le performance dell’equipaggio a un ruolo marginale. Oggi non è più così. L’esperienza e soprattutto la conoscenza maturata in questi anni nei foil ha permesso di riportare l’attenzione sul fattore umano che a mio avviso sarà cruciale tanto quanto l’aspetto tecnico.
A suo avviso ne guadagnerà lo spettacolo?
Certamente. A San Francisco si era subito visto che i team più preparati erano quello neozelandese e il defender. Oggi non è più così. Il gap tecnico è stato ampiamente colmato e team si presenteranno al via molto più competitivi. Sarà più dura per tutti.
A proposito di prestazioni cosa si aspetta dal campo di regata di Bermuda?
Condizioni di vento molto variabili. In alcuni casi avremo situazioni simili a quelle appena viste in Oman con prevalenza di venti leggeri. Ma ci sarà spazio anche a condizioni più impegnative con venti sostenuti. Il campo di regata sarà però all’interno di una baia protetta che permetterà comunque di avere poca onda situazione che esalterà le prestazioni dei catamarani.
Dovendo scegliere lei quale preferirebbe incontrare?
Ho un ricordo bellissimo della baia di San Francisco. Un vero paradiso per gli amanti della vela che potevano sempre contare su condizioni ideali con mare piatto e poca onda e tanto vento. Inoltre il campo di gara era all’interno di un anfiteatro naturale e il pubblico poteva godere di uno spettacolo unico. Ma bisogna guardare e anche Bermuda promette di essere una sede unica. Gli sforzi messi in campo dagli organizzatori sono, in tal senso, davvero eccezionali. Nelle regate disputate a ottobre dello scorso anno ho potuto constatare la bellezza di quelle acque che si prestano molto dal punto di vista televisivo.
Il claim della vostra sfida riporta Bring the Cup Home. Cosa significa per lei?
La Coppa America che all’epoca si chiamava Coppa delle Cento Ghinee è nata nelle acque inglesi nel 1851 ed è nostra intenzione, dopo oltre un secolo e mezzo, riportarla lì dove tutto ebbe inizio.
Magari le cambierete il nome battezzandola Coppa delle 100 Ghinee?
Chissà. Forse. Ma prima bisogna vincerla.
Matteo Zaccagnino
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