BEST OF 2015 – "L’avventura è l'avventura"
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La mia avventura alla scoperta di Ambrogio Fogar inizia come meno me lo potevo aspettare. “Mio padre era un uomo normale e sbagliava”. A dirlo è Francesca, la figlia del grande esploratore milanese, in un pomeriggio di fine gennaio. Seduti come vecchi amici sul divano di casa, Francesca è un fiume in piena di aneddoti, storie, retroscena di un Fogar anche privato, lontano dai riflettori. Lui che, per chi come me era un bimbetto delle elementari negli Anni ’80, era più un uomo di spettacolo, che un viaggiatore. Ci si sedeva davanti alla tv aspettando l’inconfondibile musica di “Jonathan”, il programma da lui ideato e condotto, che ha fatto da apripista a un nuovo modo di raccontare la natura. E l’avventura..
QUELL’IDEA MALSANA DI ESSERE INVINCIBILE
“Tu pensavi quasi fosse un Piero Angela, un presentatore”, sorride Francesca. “Ma lui aveva uno spirito avventuroso insito in lui”. Certo, però, passare dal fare l’assicuratore a girare il mondo da solo in barca vela è un bel salto… “In realtà è stata più una cosa usata dalla stampa che non effettiva. Mio papà aveva l’avventura nel DNA, un po’ come ce l’hanno tutti i ragazzini. Lui crescendo non ha sedato questo istinto, perché era quello che amava fare, era come voleva vivere la vita, sia da un punto di vista di emozioni, di adrenalina, di guasconeria, di coraggio, ma anche per il confronto con la natura. Quel confronto che ti porta a effettuare una vera e propria ricerca interiore. è vero che studiò Scienze Politiche, ma la carriera di assicuratore iniziò più per volere di suo padre. Lui non ne aveva voglia: andava in ufficio una volta alla settimana, prendeva e partiva per pedalare ovunque. Un po’ se ne fregava. Il suo chiodo fisso era riuscire a vivere e lavorare di ciò che amava fare”.
L’avventura nel DNA, dunque. Inseguita fin da giovane: a diciotto anni attraversò le Alpi con gli sci, effettuò decine di lanci col paracadute. Pochi lo sanno, ma proprio durante uno di questi lanci, appena terminato il servizio militare, sfiorò la morte per la prima volta: “Il paracadute si aprì male e andò giù a cento all’ora. Nello scontro si ruppe praticamente ogni osso del corpo, i denti… Era vivo per miracolo. E questo forse instillò in lui, in qualche modo, l’idea malsana di essere immortale. Quando si svegliò in ospedale, la prima cosa che fece fu cercare di alzarsi e camminare, perché era terrorizzato all’idea di essere paralizzato, di non potersi più muovere dal letto”. Rimango un attimo senza parole, pensando a quello che vivrà poi trent’anni dopo…
L’INCONTRO COL MARE E IL GIRO DEL MONDO
“Avvenne tardi il suo incontro col mare, verso i ventiquattro-venticinque anni, poi crebbe nel tempo fino ai trenta. Mi fa sempre sorridere questo ricordo di Nicolò Puccinelli, armatore di Castiglione della Pescaia, che mi disse ‘Ho visto arrivare questo qui in giacca e cravatta, mocassino, che sventolava una mazzetta di soldi dicendo di volere comprare la barca per fare il giro del mondo’… E uno giù a ridere, perché non era proprio il prototipo del marinaio”.
Un incontro tardivo, quello col mare, per un uomo che fino a quel momento era stato più “montanaro”. “Lui incontrò il mare nel 1966 e iniziò a capire che era un elemento che gli piaceva, che poteva essere il mezzo per realizzare il suo sogno, quello di far diventare l’avventura il suo lavoro. A poco a poco diventò bravo, tutto da autodidatta. Non era uno che frequentava i circoli nautici, non era un velista blasonato. La vela iniziò ad accorgersi di lui dopo la Ostar”.
Già, Fogar partecipò alla mitica regata transatlantica del 1972. Non solo, riuscì a portarla a termine nonostante un’avaria al timone per buona parte della regata, che lo costrinse a timonare solo con le vele. Da lì, poi, ecco il grande salto del giro del mondo. A bordo del Surprise, uno sloop di nemmeno dodici metri, decise di circumnavigare il globo in solitaria e controvento (ovvero in direzione opposta ai venti e alle correnti predominanti). “Giorgio Falck gli aveva proposto di fare il giro del mondo in equipaggio. Ma lui decise di affrontarlo da solo, completamente a modo suo, come non lo aveva mai fatto nessuno in Italia”.
In effetti, se penso ad Ambrogio Fogar, penso a un precursore, uno che voleva sempre essere il primo. “Secondo me voleva fare il giro del mondo perché era una cosa senza prezzo, una di quelle che sogni da bambino. Il fatto di essere il primo italiano a farlo aveva a che vedere con la sua intelligenza di uomo che stava trasformando quello che amava fare nel suo lavoro. Quindi doveva fare in modo di trovare i fondi e il primato tira sempre”.
L’IMPRESA E LA POLEMICA DEL “FALSO”
Partito il 1º novembre 1973 da Castiglione della Pescaia, ritornò al porto toscano il 7 dicembre 1974. Ad assistere alla sua partenza, sul molo di Castiglione c’erano nove persone. Al ritorno, più di diecimila. Il grande giornalista Lello Pratella descrisse benissimo l’epopea di quella circumnavigazione controvento: “Ambrogio e la sua barca fecero tutto alla rovescia e in questo viaggio di trentasettemila miglia e trecentoquarantacinque giorni di navigazione, in cui si intrecciano momenti drammatici di più di un capovolgimento, dell’incontro con un cetaceo che sfonda lo scafo e di tante giornate drammatiche e dolorose, è racchiusa una delle più conosciute e forse la prima importante avventura oceanica di un solitario italiano. Attorno a questo viaggio e a questo personaggio nuovo che irrompe all’epoca nel mondo dei quieti italiani del diporto costiero, si parla e si discute molto e ad Ambrogio, purtroppo, anche per quello che farà dopo, sino alla fine non verrà mai perdonato niente”.
Perché è vero che il giro del mondo fu un trionfo che portò Fogar sulla bocca di tutti. Il Surprise venne addirittura esposto nelle principali piazze italiane. Il navigatore italiano pubblicò il diario di bordo del suo giro del mondo. Il libro diventò un best-seller, ma accese gelosie e polemiche, che lo portarono in tribunale con l’accusa di plagio: sei pagine del libro risultarono copiate da quello di un altro navigatore, John Guzzwell. La cosa fece affiorare il sospetto che anche il viaggio fosse un falso. Fogar ammise il plagio, ma difese la veridicità della sua circumnavigazione. “Fu trovata una fotografia scattata da una nave, che lo ritraeva al passaggio di Capo Horn” mi racconta ancora Francesca, “che lo scagionò. Ma ormai c’era un’ombra su di lui”.
QUEL DRAMMA NELL’ATLANTICO DEL SUD
Un’ombra che gli rimase addosso negli anni e che forse aiutò a capire gli ulteriori attacchi che ricevette in seguito (era il 1978), in occasione del naufragio del Surprise e della morte di Mauro Mancini. Fogar e Mancini si trovavano in navigazione al largo delle isole Falkland, nel mezzo dell’Atlantico del Sud, quando la barca venne colpita da alcune orche e affondò in poco tempo. I due riuscirono a malapena a riparare sulla zattera di salvataggio, portando pochissimo cibo e niente acqua. Sopravvissero per settantaquattro giorni alla deriva in mare, bevendo acqua piovana e nutrendosi di una specie di telline che si era attaccata al fondo della zattera.
Il 2 aprile, quando ormai era stata dichiarata la loro presunta morte, vennero individuati e soccorsi da un mercantile greco, il Master Stefanos. Le loro condizioni apparvero subito gravissime: entrambi avevano perso oltre quaranta chili di peso. Mancini, troppo debilitato, morì di polmonite dopo due giorni. Gli attacchi contro Fogar furono violentissimi. “Sai, se tu hai un eroe che metti su un piedistallo e quello sbaglia, non importa se di poco o di tanto, il piedistallo è distrutto e l’eroe cade. Tanti, che forse lo avevano considerato un eroe, erano proprio giornalisti e quest’ombra se la portò dietro ogni volta che si lanciava in un’impresa. Pensa che mio padre non voleva neppure che Mancini partisse con lui”.
Una polemica che si spense solo quarant’anni dopo, quando nel 2009 il Corriere della Sera pubblicò due lettere inedite scritte da Mancini durante il lungo naufragio e che scagionarono Fogar. Come in queste righe scritte dal giornalista alla moglie: “Tesoro mio, ho vissuto questi lunghissimi giorni di agonia con il tuo nome, sempre ripetuto e pensato. Scusa del dolore che ti dò. Ma non è dipeso da errore umano. Stavamo anzi tornando indietro perché la barca aveva sofferto qualche piccola avaria. Eravamo a 4 giorni di vela da Rio de la Plata quando un branco di orche o balene ci ha attaccato affondando il Surprise in 4 minuti. Ci siamo gettati sul battello di gomma e sulla zattera autogonfiabile con pochissima roba da mangiare. Era la mattina di giovedì 19 gennaio e adesso sono 3 settimane che stiamo vagando per l’oceano senza che nessuno abbia potuto e saputo cercarci. Oggi siamo a circa 270 miglia a sud di Rio de la Plata! Ambrogio Fogar è uomo coraggioso, equilibrato, buono. Ci siamo fatti compagnia con grande fermezza d’animo e questo è già qualcosa”.
IL POLO, L’INCIDENTE E IL RITORNO AL MARE
Dopo la morte di Mancini, Fogar lasciò il mare e si lanciò negli Anni ’80 alla conquista del Polo Nord insieme ad Armaduk, un Siberian Husky che poi portò in Italia. Scoprì la tv, il deserto e i rally e, proprio durante la Parigi-Mosca-Pechino, il fuoristrada sul quale viaggiava si ribaltò. Era il 1992. La frattura della seconda vertebra cervicale lo rese quasi completamente paralizzato. “Sembra la legge del contrappasso dantesca, per un uomo che ha vissuto più vite di chiunque altro, senza mai riuscire a stare fermo, vero?”, quasi mi chiede Francesca.
Nonostante la paralisi, nel 1997 Fogar riuscì a dare vita all’Operazione Speranza, compiendo il giro d’Italia a vela per promuovere, nei porti in cui faceva tappa, una campagna di sensibilizzazione nei confronti delle persone disabili, destinate a vivere su una carrozzella. “Dopo i primi anni, che furono davvero difficili e durante i quali, non te lo nascondo, lui ha anche pensato che morire fosse la soluzione migliore, poi è scattato qualcosa. Forse ha anche capito che la vera avventura che aveva sempre inseguito l’aveva trovata in quel momento. E che doveva dimostrare di avere la forza di reggere il colpo anche se in piedi non ci poteva più stare”. Forse lo spirito di Ambrogio Fogar è racchiuso in una frase che scrisse nell’ultimo dei suoi libri, “La forza di vivere”: “è la forza della vita che ti insegna a non mollare mai, anche quando sei sul punto di dire basta”.
Tratto dal GdV di marzo 2015
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