Giovanni Porzio è uno dei più grandi reporter italiani e un appassionato velista. Nel suo libro “Il mare non è mai lo stesso” ha ricreato l’essenza del reportage, ovvero “riportare” da un viaggio notizie, ma anche racconti, sensazioni e immagini. Ecco la seconda puntata del suo viaggio alle isole Svalbard, nel grande nord! (Qui trovate la prima parte)
È impossibile lavorare a mani nude con le drizze e le scotte: anche con i guanti le dita sono congelate. Ma il corpo è al caldo. Mi sono bene attrezzato: maglie e calzamaglie “tattiche” in microfibra, giubbotto di piuma d’oca, cerata, stivali, passamontagna, berretto di lana. Dentro Ecland c’è un piacevole tepore, la stufa a gasolio funziona, ma in cuccetta dormiamo vestiti.
Procediamo con il pilota automatico (a turno almeno uno di noi sta di guardia alla timoneria interna o nel pozzetto) fino al placido ancoraggio di Salvagen Bay: acqua immota, il sole splende sul ghiacciaio, un torrente scroscia tra le rocce della spiaggia. Due trichechi passano sbuffando a poppa. E siamo soli nella natura primordiale. Niente navi, vele o pescherecci. Al mattino notiamo qualche segno di vita: accanto ai resti di una baracca di trappers, cacciatori di orsi e di volpi artiche, ci sono le tende di una spedizione scientifica. A parte Longyearbyen l’arcipelago (62.500 kmq: il 60% coperto dai ghiacci e solo il 10% con qualche forma di vegetazione) è quasi del tutto spopolato.

A Spitsbergen resistono 400 minatori russi-ucraini nell’insediamento di Barentsburg, un centinaio di norvegesi nella miniera di Sveagruva, un manipolo di metereologi polacchi a Hornsund, un team di scienziati internazionali a Ny-Ålesund e un paio di misantropi cacciatori di foche e di volpi azzurre che hanno scelto di isolarsi ai confini del mondo, derivando negli immensi spazi della più vasta wilderness d’Europa. Ci sono inoltre le città-fantasma sovietiche di Pyramiden e Grumantbyen, da tempo evacuate ma intatte, con i busti di Lenin, le scritte in cirillico, persino una piscina e una scuola di musica. Scoperte dal navigatore olandese Willem Barents nel 1596, le Svalbard (“Costa fredda”) divennero ben presto meta di una sfrenata corsa all’oro del nord: l’olio di balena, l’avorio dei trichechi, le pelli di foca, di volpe e di orso polare. Resti di stazioni baleniere, antichi cimiteri, marmitte per la bollitura del grasso, mandibole e vertebre di balene sono sparsi in tutto l’arcipelago. Tra la fine del XVII° secolo e la metà del XX° le flotte provenienti da Olanda, Russia, Inghilterra, Francia, Danimarca e Norvegia hanno sterminato milioni di mammiferi. Al punto che grandi cetacei come la Balena franca e la Balena azzurra sono oggi a rischio di estinzione. Gli orsi – protetti dal 1973 – sono in aumento e rappresentano un pericolo reale.
Michele, per ottenere il permesso di navigare nelle Svalbard, ha dovuto garantire che a bordo di Ecland ci fosse almeno un membro dell’equipaggio con il porto d’armi. E i manuali si dilungano nel racconto degli incontri letali e nelle raccomandazioni: usare armi potenti e di grosso calibro, dai fucili a pompa ai semiautomatici, con i caricatori sempre innestati e pronti all’impiego. Noi, a dire il vero, abbiamo bluffato, avendo in dotazione solo i razzi di segnalazione della barca… Ma di orsi, per fortuna, non ne abbiamo avvistati.
LEGGI LA PRIMA PUNTATA DEL REPORTAGE.
Scopri tutti i reportage di Giovanni Porzio nel suo libro “Il mare non è mai lo stesso!”
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