Martinoni e Di Majo: “Noi italiani alla Whitbread”
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Arrivano in redazione e cominciano a spulciare tra i vecchi numeri del Giornale della Vela: “Guarda qua come ero giovane!”, oppure “Non ricordavo di essere il mago della pasta con la besciamella in cucina!”. Paolo Martinoni e Corrado Di Majo sono venuti per raccontarmi cosa voleva dire prendere parte a un giro del mondo a vela, quando era ancora una grande avventura di navigatori prima che regatanti, proprio a pochi giorni dall’inizio della Volvo Ocean Race 2014-15. Insieme hanno partecipato a bordo di B&B Italia (l’ex Valentina VI del notaio milanese Masini) alla seconda edizione della Whitbread Round The World Yacht Race nel 1977/78: Di Majo è poi salito a bordo del Gatorade di Giorgio Falck nell’edizione 1989/90 per una tappa e lo stesso ha fatto Martinoni sul Rolly Go (sempre di Falck) nel 1981/82.
TUTTO PER COLPA DI UNA RAGAZZA
“Decisi che avrei partecipato alla seconda Whitbread” – racconta Martinoni – “dopo aver assistito alla partenza della prima nel 1973. Tu questo non scriverlo, ma sappi che all’epoca mi interessava una mia compagna di università: studiavo alla London School of Economics e seppi che era imbarcata sul CS&RB di Doi Malingri. Prima di andarla a trovare, passai a Gosport, dove c’era il Guia di Falck in sosta nel famoso cantiere Camper & Nicholson, per la messa a punto in vista del giro del mondo: chiesi a Jepson (alias Giovanni Verbini: per 12 volte ha attraversato l’Equatore, per ben tre volte ha compiuto il giro del mondo sopravvivendo anche ad un naufragio) di poter salire a vedere la barca. Diedi uno sguardo agli interni e una volta risalito in coperta mi resi conto che avevamo mollato gli ormeggi in direzione Portsmouth, dove partiva la regata: e pensare che avevo lasciato le scarpe in banchina! Non avrei mai pensato di arrivare a Portsmouth in quel modo. Laggiù incontrai la mia amica: mi ricordo dell’atmosfera straordinaria del prepartenza: c’erano tanti grandi velisti, in primis Tabarly. E c’era quel senso di sfida dell’ignoto, quel ‘chissà se questi qua torneranno’. Decisi su due piedi che avrei fatto di tutto pur di partecipare all’edizione successiva”.
L’ENFANT PRODIGE DEGLI OCEANI
Corrado Di Majo invece è un “bambino prodigio” della vela oceanica: nel 1976 a soli 22 anni partecipa alla Ostar sullo Swan 37 di famiglia, risultando lo skipper più giovane. L’anno successivo convince l’armatore del Valentina VI a mettere la barca a disposizione per la Whitbread, in cambio dell’impegno di trovare uno sponsor: “E lo trovammo: la B&B Italia di Ambrogio Busnelli. Mi ricordo che partimmo da Arenzano nel luglio del ’77, (dove Busnelli aveva una casa e ci teneva a fare la festa inaugurale) verso Portsmouth, fermandoci giusto a Lisbona per sistemare l’albero in alluminio, che non andava bene e che sostituimmo in via definitiva in Inghilterra”. Di Majo ha compiuto 24 anni, e anche in questo caso è lo skipper più giovane tra i “pazzi” che si apprestano a lanciarsi nel secondo giro del mondo: oltre 27 mila miglia con tappe a Città del Capo, Sydney, Rio de Janeiro e ritorno a Portsmouth.
“FAREMO ATTENZIONE”
La prima edizione della Whitbread si era conclusa con il bilancio di tre morti: “Lo sapevamo, ma non è che ci importasse più di tanto” – racconta Di Majo – “perché eravamo giovani. Si sa che la montagna miete vittime ogni anno, ma ci si va lo stesso. Questo era il nostro atteggiamento: si tratta di un’avventura pericolosa? Faremo attenzione”. E il rigido regolamento non rendeva le cose più semplici: “Per la navigazione” – spiega Martinoni – “si potevano utilizzare soltanto sestante e orologio, l’unico sistema radio per le richieste di soccorso allora era il Loran-C ma alla Whitbread era vietato, anche se era necessario avere un marconista a bordo per comunicare in caso di necessità”. Non c’era neanche il radar, per cui non ci si poteva spingere troppo a sud (nonostante la rotta ortodromica arrivasse fino al 66° parallelo) se non si voleva finire intrappolati nel ghiaccio. Gli equipaggi non avevano limiti massimi o minimi di numero, da una tappa all’altra potevi cambiare chi volevi. Ovviamente, nessuno era pagato: “Eravamo marinai, durante gli scali dormivamo in barca, mica come oggi!”, ricorda Corrado.
L’ESPERIENZA PIÙ BELLA
Nonostante sia Martinoni che Di Majo abbiano partecipato ad altre Whitbread (e a numerose regate oceaniche), quella del ’77/78 rappresenta per entrambi il ricordo più bello. “Specialmente la seconda tappa, da Città del Capo a Sydney” – a parlare è Martinoni – “quando ci siamo imbattuti in un iceberg. Un’esperienza incredibile. Un puntino scintillante che man mano che si avvicina e si trasforma in una montagna bianca. Eravamo a 62-63° di latitudine, forse non era necessario spingersi così a sud nell’Oceano Indiano. Forse lo avevamo fatto nella speranza di vedere un iceberg”. “Paolo, e l’aurora australe?”, gli fa eco Di Majo: “Uno spettacolo indescribivile: un chiarore improvviso che dura secondi, ma ti sembrano un’eternità. E ti senti piccolo piccolo”. E mentre sei rapito dalla natura, ti dimentichi di essere in regata: “La competizione c’era” – dice Martinoni – “ma arrivare primo, secondo, terzo o ultimo non importava più di tanto. C’era la consapevolezza di star prendendo parte a qualcosa di unico. Non come oggi, che se non vinci non sei nessuno”.
Quando c’era l’occasione di ingaggiare battaglia non ci si tirava comunque indietro: “Ricordo che eravamo quasi a Sydney, in ultima posizione perché avevamo avuto un problema alle crocette” – spiega Di Majo – “quando vedemmo davanti a noi Debenham, che era in penultima posizione. Dopo migliaia di miglia ci trovammo a duellare nella baia di Sydney, e riuscimmo a tagliare la linea di arrivo per primi, con il loro comandante che si levò il cappello in segno di ammirazione. Altri tempi, decisamente altri tempi”. Tempi in cui non esistevano le “star” della vela inavvicinabili: potevi tranquillamente sederti a prendere una birra con Peter Blake. Un altro piacevole ricordo, che tradisce la natura “farfallona” dei velisti di allora, lo tira fuori Corrado: “Eravamo tutti giovanissimi, arrivammo a Rio de Janeiro dopo 40 giorni di navigazione, in pieno carnevale. Devo dire altro?”. Paolo scende a Rio per prepararsi alla Route du Rhum, Corrado continua il giro chiudendo in nona posizione overall.
“DOPO CAPO HORN TUTTA DISCESA”
E Capo Horn? “Abbiamo avuto la fortuna di passarlo in buone condizioni meteo,” – racconta Martinoni – “ti riporta con i piedi per terra: dopo giorni e giorni nel nulla del Pacifico, hai un contatto visivo con la terra ferma”. “Ci mettemmo in comunicazione radio con Ambrogio Fogar” – ricorda Di Majo – “attraverso un baracchino da radioamatori che avevamo a bordo: lui stava scendendo verso sud nel tentativo di circumnavigare l’Antartide sul suo Surprise, assieme a Mauro Mancini. Ci disse: ‘Ragazzi tranquilli, dopo Capo Horn è tutta in discesa’. Purtroppo il naufragio che costò la vita a Mancini avvenne pochi giorni dopo”.
SALVO PER MIRACOLO DI SAN SILVERIO
Nel 1981/82 Martinoni, che ormai è diventato un esperto navigatore oceanico, prende parte alla terza Whitbread, solo nella tappa che da Auckland porta a Mar del Plata, in Argentina, a bordo del Rolly Go di Falck: “Volevo rifare Capo Horn”, spiega. E ci riuscirà, ma dopo aver rischiato la vita ed essere stato salvato per miracolo: “Eravamo a latitudine 52° sud, di notte, sotto spi. Il mare era agitato. All’epoca si teneva un piccolo genoa anche quando c’era lo spinnaker, si diceva che stabilizzasse la barca. Mentre stavo legando la sacca dello spi alla battagliola, il genoa cambiò improvvisamente mura e mi sbatté fuori dalla barca. Quando ho visto la scritta ‘Yacht Club Costa Smeralda’ sulla poppa della barca che si allontanava, ho realizzato quello che era successo. Con l’acqua a sette gradi, dopo pochi minuti sei morto. E fino ad allora, nessuno che era caduto nel Pacifico del sud era mai stato ripescato vivo. Mi tolsi li stivali e mi misi a fare il morto, perché meno ci si muove e meno calore si disperde, nell’attesa che mi venissero a riprendere. E nel frattempo, pensavo. Venni preso da un dispiacere indicibile, con la consapevolezza che di lì a breve, se non fossero venuti a salvarmi, sarei passato dalla vita alla morte. Fortunatamente Pierre Sicouri prese il timone e in sette minuti riuscirono a tirarmi su, dopo essermi passati sopra, avermi individuato una volta sopravvento ed essersi lasciati scarrocciare per avvicinarsi a me. Mi issarono a bordo mi spogliarono nudo, mi offrirono una sigaretta e un tè e mi fecero saltare il turno di guardia successivo. Dopodiché ero pronto per ripartire. Jepson, immancabile a bordo, mi confidò che durante le operazioni di recupero era stato chiuso in cuccetta a pregare San Silverio, il patrono di Ponza, la sua isola di origine, di salvarmi. Promisi a Jepson che sarei andato l’anno successivo a onorare San Silverio durante la sua festività a Ponza, ma poiché ci andai a vela e presi bonaccia, arrivai all’isola il giorno successivo”.
C’È BISOGNO DI AVVENTURA
Corrado Di Majo ha invece partecipato alla Whitbread 1989/90, nella tappa da Punta del Este a Perth: “Molte cose erano cambiate dal ’77: la competizione era diventata prevalente. Nel corso degli anni il fenomeno si sarebbe amplificato, prima con l’avvento dei Wor 60 nel 1993 (io fui project manager di Brooksfield, per cui Paolo curava la comunicazione), poi con i Volvo Open 70. Non so se questa sia la direzione giusta: non a caso ci sono sempre meno barche. Un tempo era soltanto una grande avventura: e come tale attirava l’interesse dei media. La vela, dal punto di vista tecnico, è difficile da raccontare a un pubblico di ‘profani’. Non è come il calcio, o il tennis. Quando l’attenzione si sposta sul lato competitivo, inevitabilmente cala l’interesse. Non me la sento di criticare il format della Volvo Ocean Race: sono altri tempi. Spero che qualche giovane intraprendente trovi il modo di rilanciare il giro del mondo. E di riportarlo alla sua dimensione di grande avventura”.
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